sabato 12 marzo 2016

I miei maestri

Come forse gia' sapete io ho delle idee molto personali sulla scrittura e sugli scrittori. La mia simpatia va a quegli scrittori che hanno voluto diventare tali stando nel gorgo della vita, vivendo la loro letteratura e raccontando le proprie vite al centro o collaterali alle vite degli altri. Inutile dire che tutti gli scrittori sono autobiografici, come diceva anche Borges. E lo cito cosi in questo modo la mia affermazione ha piu' credibilita', Ecco un esempio di scrittura ruffiana che detesto. Preferisco quegli autori che hanno scritto la loro roba in prima persona, rischiando tutto, vivendo ai margini della societa', disprezzati dai grossi editori e dai parrucconi universitari che scrivevano i loro testi e le loro poesie con gli stomaci pieni e ben riposati. Certo , si puo' scrivere anche bene essendo riposati e a pancia piena, dopo che magari sei su di giri perche' e' appena uscita dalla tua stanza una studentessa universitaria disposta a tutto pur di superare l'esame ed hai appena mandato al diavolo quell'essere integerrimo di cui cotanto cianci e scrivi poi una volta riacquistata la vena artistica, diciamo cosi. Ma e' una questione di credibilita'. Henry Miller e Charles Bukowski, per esempio sono nel mio olimpo personale degli scrittori che preferisco leggere e rileggere. Bukowski addirittura lo definisco un talismano. Ritenuto a torto uno scrittore volgare e sciatto , ha in realta' inventato un genere letterario che definirei iperealistico. Magari non tutto di quello che racconta e' realmente accaduto , ma lascia la sensazione ben netta che sarebbe potuto accadere. Che gli sarebbe potuto accadere di lavorare in un macello ad oltre cinquantanni perche' senza soldi e male in arnese in mezzo ad un mucchio di neri nerboruti che lo facevano sentire piu' negro di loro, la' dove la legge del piu' forte fisicamete era la legge della sopravvivenza molto piu' del piu' forte quanto a intelligenza nel saper sfruttare gli altri, cattivo cerebrale , si potrebbe dire, non muscoloscheletrico, come quei negri. Come ad Henry Miller e' senza dubbio accaduto di passare da responsabile di una compagnia di poste e telegrafi a barbone a Parigi, sempre a mendicare nei bar ad amici americani sradicati come lui , il cornetto della colazione o una cena succulenta, in cambio di un po' di ruffiana compagnia durante la quale provare grandi prolusioni orali nell'intento poi di trovare una giusta tecnica di scrittura per trasferirle su carta. In relazione all'impatto sull'uditorio. E sarebbe potuto accadere e forse e' realmente accaduto che parlando con un attore che precisava in continuazione che non era finocchio, in un racconto del mitico "Taccuino di un vecchio sporcaccione", tratto da una rubrica che usciva su un giornale di Los Amgeles dal titolo esplicativo "Open Pussy", che il vecchio Henry Chinaski, alter ego letterario di Bukowski, concludesse il dialogo con la battuta"forse sarebbe meglio che ci dichiarassimo tutti finocchi, cosi la finiremmo con questa stupida paura". Ecco un esempio di come , esprimere con parole semplici concetti complessi che arrivano a racchiudere un mondo o un'intera filosofia, rasenti la genialita'. Ed era quello che Bukowski pensava. Bukowski il barbone alcolizzato che frequentava le biblioteche e leggeva di tutto, dai testi di anatomia agli odiosi, per lui, Norman Mailer e Tolstoj. Anche quando disprezzava gli altri autori , Bukowski era un puro. Non c'era invidia in lui, proprio non gli piacevano e basta. Piu' veniva messo ai margini poeticamente, impubblicato, deriso dagli editori, e piu' lui si accaniva a scrivere , dicendo che ogni rifiuto per lui era nuova benzina letteraria, nuovi stimoli a scrivere meglio e fare meglio. E anche Henry Miller, piu' enciclopedico e torrenziale di Bukowski, piu' leonardesco negli universi dei suoi interessi, fu pubblicato in Francia passati i quaranta e il suo Tropico del cancro non usci in America se non anni dopo, bloccato dalla censura. Come Pasolini che tradi la propria classe di appartenenza, la borghesia intellettuale in luogo dell'amore viscerale per il sottoproletariato suburbano, cosi Miller tradi la cultura ebraica e capitalista americana a cui apparteneva, dicendone, da americano, peste e corna. Ancora oggi, quando voglio tirarmi su, circondato da un universo di niente, da una tv che non trasmette niente, schermo piatto, cervelli piatti, librerie che vendono libri di autori che vendono libri perche' qualcuno li ha visti in televisione -ma io non riesco a vedere l'autore in questi menestrelli televisivi, sono  come un calabrone, che vede solo alcuni colori e i suoi occhi selezionano quello che gli sta di fronte- , ancora oggi, dicevo, per tirarmi su, leggo un libro di Bukowski o Miller. C'e' della follia in tutto cio', lo riconosco. Una follia da parte mia nel volermi ostinare a cinquant'anni suonati a scrivere tentando di pubblicare  e vendere i miei libri al solo scopo divulgativo delle mie idee che io dono al mondo. Il prezzo dei miei libri basta appena a coprire le spese per pubblicarli. Ma va bene cosi, mi sento di rispettare di piu' l'Amazzonia, in questo modo. E non mi sento in colpa come invece dovrebbero sentirsi in colpa autori i cui libri vedo ammonticchiati e invenduti nelle librerie, nonostante siano spinti dalle case editrici. Perche' per fortuna , non so ancora per quanto, ma il lettore sa riconoscere la fuffa dall'arte. E bisogna essere un po' folli, come lo sono stati Bukowski e Miller, che ci hanno raccontato come si possa essere felici attraverso i libri e ridere della vita, del proprio essere antieroi, dei propri cazzi medi, direbbe Bukowski, delle erezioni mancate in preda ad alcol e sigarette e delle meschine richieste di denaro per lettera a dei lettori, lettere vergate con vergogna e onore, secondo me, in qualche soffitta di una citta' del mondo, come faceva Henry Miller, perche' comunque sarebbero soldi ben spesi, se possono tirarti su, allietarti o allettarti una vita densa di niente.