mercoledì 1 giugno 2016

Macondo e generazione Santo Niente

Ogni tanto in visita ad Ostuni, durante le ferie o altro, durante il mio tempo liberato dal lavoro, nella citta' natale, sento l'esigenza di rivedere i vecchi amici . E quasi sempre assieme ad essi se ne unisce qualcuno di nuovo, quanto a generazione. Dal che mi rendo conto che il concetto di generazione va un po' depurato dall'ossessione temporale e allargato ad uno stato d'animo che percorre vari anni di nascita, varie sensibilita' culturali, e' l'unione di chi e' nato nel '65 o giu' di li, ma anche dieci anni dopo, perche' il salto non e' che sia stato cosi evidente e  il milieu che ci ha tenuti invischiati, uniti gli uni agli altri, e' stato piu' che altro uno stato dello spirito caratterizzato dal disagio di non essere appartenuti alle generazioni che si piccano di aver fatto la storia di questo paese e che nel bene e nel male hanno avuto tutto grazie a questo e che stanno li sempre a menarla con quest'appartenenza a '68[ come anno di cambiamenti rivoluzionari, non di nascita] e '77. Che questi ultimi sembra siano stati ancor piu' radicali nei propositi, quanto pompieri e riflussardi, negli anni in cui dovevano far quadrare i bilanci personali e famigliari, stando vieppiu' ben attenti, a far passare quei periodi di militanza rivoluzionaria come medaglie al valore civile e politico al bar con gli amici, periodo di ragazzate impenitenti, davanti al capufficio o a suoceri danarosi. Per cui dopo un giro di telefonate e qualche saluto al volo scambiato in giro fra viale Pola, storica strada commerciale al centro della Ostuni moderna e villa comunale e piazza della Liberta', e piu' che altro nei bar ivi siti, piu' gia' verso la zona storica, ma ancora non nell'epicentro d'essa, si stabilisce un incontro fra vecchi compagni di scuola, di militanza politica e   calcistica, che nei paesi e nella nostra infanzia, anche se subliminalmente e senza clamorose esposizioni socratiche[ che qui si intende Socrates, il calciatore brasilano che invento' la democrazia del pallone e contribui a far cadere il potere dei militari nel suo paese verdeoro], spesso avevano una coincidenza nella splendido principio filosofico noto a tutti in base al quale si diceva che noi eravamo come giocavamo al pallone. Si decide che una di quelle sere di maggio, mese in cui compio gli anni, ci si incontra per una fatidica birra a mo' di catalizzatore etilico , come alibi, quindi, per una chiacchierata rinverditrice di vecchi tempi, di vecchi fasti e perche' no, visto che autoironici lo siamo, noi della generazione del Santo Niente[che poi spieghero' perche' ci chiamero' cosi], di vecchie e insulse cazzonaggini.
La sera stessa , io, in compagnia di Gianfranco Gradone, storico segretario di Rifondazione Comunista, il partito piu' fantasmatico della scena politica italiana, piu' che un partito , ormai, uno stato d'animo e di pura militanza religiosa di laicismo movimentista , in macchina, ci aggiriamo per le strade della zona industriale sulla Ostuni-Carovigno, diretti al Macondo, una birreria-pub a noi particolarmente cara, non foss'altro per quel nome volutamente letterario. Gianfranco ha piu' che una decina d'anni in meno di me, siamo amici recenti, di militanza politica e culturale, che se Pasolini dei comunisti italiani diceva essere un popolo nel popolo, di noi si sarebbe potuto dire , appartenenti a quella sinistra estremamente diffusa nel paese, che non ha piu' riferimenti parlamentari, che chiameremo spirituale, non tanto per la sua natura legata agli spiriti di un eterno purgatorio, quanto per l'impossibilita' di negare a se stessa un'educazione quand'anche cristiana che portasse a ripugnare la piu' grave malattia di qualunque sistema di vita: l'ingiustizia sociale. Mentre ci aggiriamo in macchina fra queste strade di asfalto piagato dal sarcoma di Kaposi dell'incuria comunale urbana, cercando di coniugare il salvataggio della coppa dell'olio e la conquista di una coppa di rally, ad un certo punto svoltiamo sulla sinistra, che a dire il vero ci viene facile, e da lontano scorgiamo un tenue lucore, e' gia' sera inoltrata,  e qualche auto parcheggiata li nei pressi di quella luce. Deve essere l'ingresso del Macondo. Parcheggiamo li vicino, mentre la radio di Gianfranco gracchia vecchie canzoni blues su radio Capital e scendiamo dal mezzo. Gianfranco e' vestito con un giubbotto di pelle nera, sotto indossa una t-shirt verde con una inequivocabile stella rossa al centro, jeans e scarpe comode. E' magro, il colpo scolpito dalla sua pratica sportiva cicloamatoriale, che un giorno mi disse essere tratto esistenziale piu' che salutistico, dal momento che lo aveva aiutato  a non impazzire ed a calmierare le sue energie surplutiche. Anch'io indosso un giubbotto leggero di pelle nera e porto una t-shirt granata, jeans e scarpe da jogging...che quando sono in vacanza approfitto per praticare quotidianamente, non foss'altro per contrastare , piu' che i radicali liberi, i pranzi e le cene luculliane ricchi di alimenti mediterranei saporiti ma tutt'altro che light. Corro per riequilibrare la continenza nelle giornate di gola.
L'ingresso del Macondo e' costituito da una porta lignea ben massiccia da locale western di un film di Tarantino. Fuori c'e' silenzio , solo scarpe che masticano brecciolino bianco. Una volta aperto il portoncino, veniamo accolti dal tepore del luogo. Dentro le luci sono attenuate, la sala e' ampia, modello saloon, ma non ci sono ballerine di can can e spari in sottofondo, ma brani selezionati di Paolo Conte o De Andre'. Sulla parete destra c'e' una scritta che riguarda un capitolo di Cent'anni di solitudine, in mezzo a tre culi di botte che sporgono dal muro. I tavoli sono lignei ed eleganti, spartani ma ricercati , le panche grezze ma rifinite e certi cubotti anch'essi di legno fanno da sedili per i tavolini per meno persone. Di fronte il bancone, con gli erogatori per spillare birre di vari tipi alla spina che sporgono come colli di aironi cenerini metallici. Dietro di essi, come quasi sempre tutte le volte che si entra al Macondo, il padrone di casa, un uomo di mezz'eta' di complessione robusta con pizzo e basette di un certo rilievo e uno sguardo lievemente ironico che sembra quasi elaborare le storie di tutti noi che entriamo tenendosele nel romanzo personale della sua mente come a trarre conferme di certe sue teorie sulla vita. Io lo chiamo l'Abate, un po' per quel suo aspetto e tono ieratico nel parlare e anche per via del fatto che si picca, a quanto pare a ragione, di essere un grandissimo esperto di birre , in particolare , ma non solo, belghe, che notoriamente nascono nei monasteri medioevali , dei monaci trappisti in particolare. E' il "creatore", potremmo dire, di questo luogo di magia, nel quale, entrando, sembra di entrare in un mondo a parte, in un atmosfera piacevolmente torpida, quasi attinente allo spossessamento dei ricordi, caratteristica degli abitanti di questo immaginario luogo letterario del romanzo Marquesiano, ed ha curato i particolari dell'arredamento , compresi quegli strani boccacci vitrei vuoti sospesi al soffitto, che sembrano riprodurre i fumetti degli avventori e delle loro presumibili conversazioni. Mentre fantastico aggirandomi fra i tavoli, nella luce bassa, soffusa, che riproduce lo stato di alterazione che potrebbe ad un certo punto produrre la birra, a sinistra, noto una tavolata in cui sono gia' accomodati con una certa prosopopea vaquera come in un film di Tarantino, altri "convocati" per la serata revival.
Ci salutiamo allegramente, con strepiti, urla e dammi cinque e pacche sulla schiena. Seduti rispettivamente da sinistra ci sono: Enio Santorsola, storico compagno d'infanzia, stessa generazione forse un anno meno, ambientalista, forestale, conoscitore di natura e animali dei luoghi come pochi, orecchino pendulo da uno dei due orecchi e atteggiamento pronto alla partenza per un'uscita subitanea da sigaretta rilassata, Roby De Andreis, storico animatore dell'Arci, militante di tante battaglie, appassionato di letteratura, ambito nel quale lavora anche, occhiali dovuti ai cinquanta, credo e sguardo scientifico , quasi, sul bicchiere di birra, bevanda che sostiene rifocilli meglio del gatorade al termine di storiche partite di calcetto[che nessuno credo sia piu' in grado di fare, [per mancanza di tempo e d'allenamento e per paura d'infarti] e  Alfonso Zufolo, che ha finito per lavorare nel bar di famiglia ereditandolo, uno dei piu' antichi bar marittimi che un tempo  era parecchio  rinomato per i gelati, specie  nelle estati delle infanzie anni '80, che quella era l'epoca in cui lo si bazzicava, noi della generazione del Santo Niente, riuniti in comitive gravide di ragazze bionde figlie di ostunesi migrati a Torino, fra Fiat e affini, e dagli aliti incomparabilmente agliosi.
Io e Gianfranco ci sediamo e scorriamo subito il menu con la pesante copertina in pelle. Si servono parecchie leccornie, li al Macondo, dai wurstel originali bavaresi , a taglieri di salumi e formaggi, ci sono persino le insalatone, le bruschette, ma il pezzo forte e' rappresentato dai panini,  in abbinata ad una birra media , meglio due, che la favella poi scorre ancora meglio. E la caratteristica di questi panini , oltre che gli ingredienti, originalmente combinati, altro che MacDonald o affini, e' che a ciascuno di questi e' stato dato il nome di un artista, di un pittore. Io e Gianfranco prendiamo quasi sempre un panino dedicato a Dali, il pittore surrealista autore oltre che di quadri mirabili ,di aforismi intramontabili. Uno dei quali, bello e fulminante mi sovviene spesso:" piu' di tutto mi ricordo il futuro". Io lo prendo sempre perche'fra i moti ingredienti dentro ce n'e' uno raro e particolare, un ingrediente che mi riconnette con la mia natura primitiva e si accoppia alla perfezione, per il sapore ancestrale che mi lascia in bocca, al mio soggiorno mediterraneo:il salame di cinghiale. Altri prendono il Michelangelo, qualcun altro un Picasso.
Nell'attesa ordiniamo le birre e anche in questo caso ci differenziamo, dal momento che io e Gianfranco chiediamo Estrella dam Daura, una birra senza glutine, piu' digeribile e ugualmente saporita', prodotta in Spagna a beneficio dei celiaci. Quando ordiniamo queste birre , Alfonso Zufolo punto nell'orgoglio baristico tira fuori la sua teoria che poi ad una piu' accorta analisi tanto peregrina non risulta: e cioe' che se beviamo la birra senza glutine poi il corpo abituato a soddisfarsi con quelle con il glutine , ti spingera' a berne di piu' di una. Con il risultato dietetico opposto a quello che si vuole ottenere. Ad ogni modo incassiamo il consiglio ma non recediamo dalla nostra ordinazione. Gli altri ordinano delle spine enormi chiare senza tanti sofismi alimentari. pronti a bissare e a triplicare , che domani e' un altro giorno e la notte porta consiglio. E smaltimento di sbornia. Si chiacchiera del piu' e del meno, mentre arrivano i panini e io addento il mio finendolo con la mia solita irrefrenabile voracita' che ogni volta mi suggerisce di andare a scuola di masticazione da un buddista. Ed e' alla terza Daura, e qui Alfonso Zufolo, nostro storico portiere negli infiniti tornei di calcetto che duravano in eterno -lo ricordo bestemmiare quasi sempre all'imbrunire, quando beccava l'immancabile gol nell'invisibilita' del semibuio, da Giandomenico, un ciociaro trapiantato che aveva l'abilita' di metterla dentro sempre a quell'ora [e che per questo fu da me soprannominato lo sciacallo]-ci aveva azzeccato con il pippotto antigluten free, alla mia terza Daura, dicevo,  me ne vengo fuori con il predicozzo etilico, che restera' storico, credo, favorito dall'alcol, logicamente, in cui tiro fuori questa storia della generazione del Santo Niente. Non ricordo esattamente le parole birrose  che pronunciai, ma ad un certo punto , piu' o meno, mi venne fatto di dire:" insomma questi del '68 si sono beccati il meglio della vita, occupazioni delle universita', lauree garantite, prime pagine dei piu' importanti quotidiani del mondo, il disprezzo di Pasolini, l'amore libero, lo spinello libero, il sesso a gogo nei sacchi a pelo delle universita', ah gia' questo lo avevo gia' detto, in un altra forma...ecco, poi arrivano pure questi del ' 77, che ti fanno la lotta armata, poi la maggior parte si pentono o si dissociano, ma continuano ad andarsene in giro con quest'aura da rivoluzionari, dico". E tu con questa Daura senza glutine, intercala Alfonso Zufolo, per sfottere. Io rido e continuo pannellianamente il mio ragionamento. "Poi", dico, "questi degli anni '70 sono diventati professori e quando toccava a noi occupare le scuole, giu' a dire, lasciate perdere , lo abbiamo fatto gia' noi. Facciamo i cortei , scriviamo con gli spray sui muri, e loro sempre, lasciate perdere, gia' fatto, gia' visto 'sto film...poi quando toccava a noi fare le manifestazioni e fumare spinelli e imboscarci, le figlie di questi 'reduci perenni dell'unica rivoluzione possibile'  giu' ancora a dire, noi non facciamo uso di droghe, perche' servono per portarci a letto,  ce l'hanno detto mamma e papa'. E infine, colmo dei colmi della sfiga, il sesso libero non si poteva piu' fare, perche' c'era l'aids. Cornuti e mazziati, mannaggia Santo Niente", esclamo infine . Subito sbottano tutti a ridere. E io mi rendo conto di aver coniato una definizione perfetta per la nostra generazione. Non abbiamo nessun Santo a cui votarci e siamo troppo "puliti", onesti, ingenui, per bestemmiarne uno reale. E Santo Niente, dalle nostre parti, e' una bestemmia abortita, attenuata, una bestemmia mancata, repressa, spuntata, la bestemmia di chi, in definitiva, non vuole veramente bestemmiare. Una bestemmia non bestemmia che ci rappresenta, noi idealisti, ingenui, puri, che abbiamo ereditato un mondo in cui tutto e' gia' stato fatto e meglio da altri e in cui sembra non esserci piu' spazio, una generazione al termine di generazioni che prima hanno disfatto il mondo e poi l'hanno rifatto peggio di prima. 

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