Il racconto della 90
La mia macchina è ricoverata per un
tagliando. Poco male, farò un giro per la città. Milano, strano
settembre del 2022. Decido di andare da Corsico al Portello,
dall'altra parte di Milano, zona viale Certosa. Lì c'è ancora una
libreria Feltrinelli. Darò un occhiata ai libri. Sono pochi ormai i
libri che mi interessano: Duras, Arancia Meccanica di Burgess, in una
nuova traduzione. Cose così. Bisogna pur avere delle passioni.
Invecchiando devi avere dei punti fermi. I libri che scrivo sono i
figli che non ho avuto. I libri di alcuni scrittori, quelli che ho
adottato. La mia mente scrive in continuazione. Anche ora che guardo
fuori, seduto, dall'autobus 325 che da Corsico mi sta portando verso
Romolo, fermata della metropolitana della linea verde. Di lì
prenderò la 90, circolare destra, che attraversa tutta la città, 24
ore su 24. Una linea famigerata, leggendaria, direi, i cui autobus
sono enormi serpentoni autorticolati che paiono dinosauri meccanici
che strisciano sull'asfalto della città, sui suoi torrenti di
asfalto. In questa giornata di sole laterale che si insinua dai vetri
di queste balene arancioni dell'Atm che solcano la città che si è
ripopolata all'improvviso di gente tornata dalle vacanze tutti negli
stessi posti, pollai marini, in cui hanno trovato le stesse dinamiche stressogene da cui sono fuggiti. Eccoli qui, sotto il sole, sui
marciapiedi, migliaia, multietnici multitasking, sgambettare
nevrotici, cellulare in mano, senza più il coraggio di guardarsi in
faccia. Per scoprire che le facce sono facce da display. Scendo in
Romolo, dopo aver percorso un tratto di naviglio dove un mucchio di
gente ancora in semiferie corre, suda, va in bici, cammina, senza
dare un'occhiata all'unico display che dovrebbe guardare,
affascinata, quello della natura sopravvissuta, che è quello dello
specchio d'acqua dei navigli, gravidi di cavedani che saltano fuor
d'acqua a catturare zanzare, mosche, libellule e altri lepidotteri
del caso. Attendo la 90, serpentone metallico, il display alla
fermata ( e qui i display sono decisamente in aumento) dice che
mancano tre minuti al suo arrivo. Do un occhiata intorno. Osservo una
ragazza di 15 anni, pantaloncini di jeans, canotta corta, ombellico
fuori con piercing in bell'evidenza strappato senza troppe difficoltà
alle resistenze di una famiglia che non ha più tempo per
niente....perchè deve lavorare e la produzione incombe. Dietro di
lei una ragazza araba con l'Hijab, più o meno coetanea. Le guardo in
soprapposizione e penso, ecco qualcuna che si ricorderà le farfalle
nella pancia , a lungo, dopo i primi amori. E forse l'hijab se lo
toglierà quando sarà il momento. Forse solo dalla mente. Forse solo
nella mia , di mente. I talebani hanno ancora qualcosa da raccontare,
rudi, duri, medioevali, come sono...ma autentici. Forse sono ancora
in grado di dare amore e amicizia, al termine del loro sembrare
preistorici di primo achito. Salgo sulla 90. Alcuni portano la
mascherina altri no. Non ci bado più, ormai. Più quelli che non la
portano di quelli che la portano. Su questo autobus leggendario che
solca la città da parte a parte, non c'è un solo essere umano
uguale per cultura, nazionalità, tratti somatici, sesso, età,
religione, forse gusti sessuali...è il tempio della diversità,
un'ambientazione alla Blade Runner che infatti, solo uno scrittore,
come Philippe K. Dick, poteva anticipare nei suoi sogni vaticinatori.
Riesco a sedermi, 3,30 del pomeriggio, e ancora si riesce. Mano mano
che le fermate si alternano salgono in tanti: thailandesi,
srilankesi, indiani, arabi, flippini, cinesi,
sudamericani...italiani...sì, ci siamo anche noi. E una volta tanto
i marziani sembriamo noi. Una signora anziana, italiana, sale ad una
fermata. Una trans thailandese avanti con gli anni si alza per farle
posto. Di 10 giovani virgulti della generazione z, seduti svaccati
intorno, nessuno fa neppure l'atto di sollevarsi per farle posto. Io
sono troppo lontano e sono lì in qualità di osservatore. Stilo le
mie cronache contemporanee della città del futuro, con la penna dei
miei occhi e la carta del mio cervello. Man mano che l'immenso
autobus, taglia la città, un graffito sulla parete di una casa a un
piano, a destra, raffigura il volto di un'infermira e rende omaggio
alla categoria dei recenti combattenti contemporanei, che hanno
combattuto e combattono il virus del Covid, unici combattenti rimasti
nella massa indistinta dei “mi sono rotto il cazzo della
mascherina”, che mai si interrogano dei calci nel culo che si
beccano da capi, politici, burocrazia e tutto il circo equestre del
male da cui si fanno sopraffare. Per abitudine, inerzia, due ore
libere nel week end per la partita e la pizza, il sushi con le amiche
impiegate d'ogni sorta, che si sbellicano allegramente cianciando di
misure penieni dei rispettivi partners, mentre gli oceani si svuotano
e i pesci in faccia sono per loro carezze. Fuori il sole penetra fra
i pochi alberi sopravvissuti alla siccità di tutto l'anno, filtra
fra i vetri e accarezza i volti dei passeggeri diretti verso un
inferno clandestino in quanto inconsapevole. Una donna si siede
davanti a me, dopo aver cacciato in malo modo una bambina egiziana
con hijab in testa e leggins, un piccolo skatebord sottobraccio,
ennesimo ogm della moda contemporanea possibile ventura. La bambina
si alza senza fare storie. Sua madre, lì dietro, la guarda con
compiacimento, perhè è stata educata. Più di sicuro della signora
di mezz'età, che l'ha guardata con odio e continua a fulminarla con
gli occhi, neanche , la piccoletta, fosse un teppista e il posto
sull'autobus, suo di diritto. Che problema c'è nel guardare così,
dice la madre della bambina, richiamadola a se', sotto la sua ala
protettiva. La donna, un'italiana dal volto triste come un allocco a
lutto, non risponde. Attacca subito a digitare sul suo cellulare.
Digita compulsivamente e mi guarda con un preventivo e cagnesco
disprezzo. Poi , ad alta voce, mentre tutti nel grande mezzo, nel
ventre di questo capodoglio di vetrometallo che ricorda la balena di
Pinocchio, restano silenziosi, impegnati dal chiasso dei propri
pensieri, comincia a declamare un audiomessaggio.” No, guarda, non
penso che mi incontrerò mai più con voi, non ho niente da spartire
con voi, io per voi non esisto e tantomeno voi per me esistete, per
cui non insistete a mandarmi messaggi, non abbiamo nulla da spartire
noi, fra noi, preferisco starmene a casa a vedermi un film piuttosto
che uscire con voi e starmene tutta la sera in un angolo
completamente ignorata mentre voi fate capannelli fra di voi, magari
mi leggo anche un libro, ecco, che è comunque meglio che trascorrere
la serata con voi”. Poi chiude il messaggio e lo invia. “ L'hanno
capita, adesso, spero”, dice ad alta voce rivolta a me che le sto
di fronte. Io non faccio una grinza. La guardo senza accennare né ad
approvazione né a disapprovazione. Ma non posso non pensare al
concetto di “ leggere un libro è comunque meglio che uscire con
voi”. Rifletto sul fatto che le persone a cui ha inviato
l'audiomessaggio devono farle persino più schifo che leggere un
libro. Devo proprio essere campione mondiale di gommoni che si
schiantano contro transatlantici se mi ostino a scrivere libri in un
mondo a cui ormai fa schifo leggere. Alla fermata successiva, scende.
Il traffico intorno è mostruoso. Siamo bloccati. Salgono di continuo
passeggeri con magliette, sciarpe, bandiere dell'Inter. Dev'esserci
una partita, deduco. Uomini e donne di tutte le età, tranquille
casalinghe e travet d'agenzia che di qui a poco scaricheranno tutto
il loro livore su un arbitro. Ad una fermata mi si siede davanti un
giovane. Magro, t-shirt nera recante la scritta “Narcos”, porta
quegli orribili capelli tagliati come a tettoia davanti per rondini o
pipistrelli per la mia immaginazione sarcastica. Sniffa in una
sigaretta che di lì a poco, una volta sceso, spera di accendersi e
gustarsi. Ad un tratto il mezzo si ferma. Deve dare la precedenza a
moto dei vigili urbani e volanti della polizia, che fanno segno di
togliersi dalla strada. Poco dopo seguono due pullman della Mercedes
con sui lati un'enorme scritta: Bayern Munchen. E' la squadra del
Bayern. Un nero seduto al mio fianco è estasiato. Vestito in giacca
e cravatta, mascherina, smartphone su cui fino a quel momento stava
guardando una serie tv senegalese, mi guarda e mi dice:”che
potenza, che forza, persino la scorta della polizia” e mi guarda in
cerca di assenso. “Già, mezzi di una società privata che hanno la
precedenza nel traffico con i miei soldi di contribuente”, dico.
“Come, scusa?”. Niente, replico, è troppo lunga da spiegare...e
poi è solo la punta dell'iceberg. Sto zitto un minuto. Che poi
all'iceberg, se gli togli la punta, magari affonda. Ma mi accorgo che
parlo a me stesso. Arrivato all'altezza della Mediaword che incrocia
con Viale Certosa, decido di scendere. Il Portello, area commerciale
dove c'è la libreria, è lì in zona. Sulla sinistra c'è il
palazzone di Casa Milan, con l'enorme schermo in cima che manda
immagini di calciatori di questa Repubblica Popolare Democratica
fondata sul pallone. In Korea del Nord i display mandano i rap di Kim
Il Sung, qui le immagini ridanciane di Paolo Maldini, il nostro Che
Guevara della fascia sinistra( qualcosa di sinistra c'è rimasto).
Scendo e faccio due passi a piedi. La teoria di auto è infinita.
Quando una metropoli contemporanea sembra quello che deve sembrare.
E' tutto a posto, tutto in ordine, ogni cosa è al suo posto, andrà
tutto bene...l'Inter sta per giocare, i ghiacciai si stanno
sciogliendo, non piove da anni...ma non c'è da disperarsi. Bisogna
solo aspettare di mandare l'arbitro affanculo.