venerdì 21 aprile 2023

Guerre Stellari, terza parte

 


Il viaggio ( terza parte di Guerre Stellari)


Comincia a sgranocchiare patatine, le chips, le più rumorose e siccome ha già infilato nelle orecchie gli auricolari, non sente che fa il rumore di 1000 scoiattoli che attaccano un noceto. Un'ora così. Nietzsche non mi è mai parso così condivisibile nel giudizio sulle donne come nella lettura che sto facendo nei frangenti in parola. Verso le due (notte) ci fermiamo per una pausa di un quarto d'ora. L'autogrill verso Parma è strapieno e io faccio appena in tempo a terminare la coda in cassa con la mia scatola di chips ( oh vendetta, tremenda vendetta!) che il quarto d'ora è bello che terminato. Ripartiamo. La mia compagna di viaggio è già seduta e sbuffa perchè deve ruotare le sue natiche rinsecchite per farmi passare. La gonfiacuscini sta finalmente dormendo e sogna Lucia che si gode la credit card dell'ex fidanzato; mi siedo e inizia “l'operazione pan per focaccia”. Apro la scatola di chips e inizio a sgranocchiarli. La mia vicina ha dismesso per un attimo gli auricolari e fa segno di coprirsi le orecchie per il fastidio sonoro. Ci metto più di un'ora a finire le chips, assaporandole lentamente, mentre lei ha finito la batteria agli auricolari e non può finire di vedersi la sua maledetta serie tv. Morale della storia, chi di chips ferisce di chips perisce. Lei riceve un'altra telefonata e giù insulti ai suoi “amici” e conoscenti, uno era coglione, un'altra una troia fottifidanzati, poi doveva andare a Parigi con tutto il suo corredo verbale da parrucchiera. Siamo seri. Non ce la può fare. Mi ricorda sempre tutte quelle volte che sbarco ad Ostuni e con chi parli parli vengono fuori nomi di gente che è emigrata ed è diventata dirigente. Sono tutti dirigenti, Nessun facchino. Certo, adesso Ostuni è la nuova Silicon Valley. Come no. Se gli facessero la macchina della verità la farebbero esplodere! L'imperativo categorico è diventare dirigente o niente. Be', alcuni sono diventati entrambi, mi pare. Alle 4 ci fermiamo a Tortoreto. Scendiamo. Entriamo nell'Autogrill dove ci siamo fermati e per fortuna il posto è vuoto. Dopo aver fatto colazione e aver constatato che pure in Abruzzo i cornetti li chiamano brioche, come a Milano, girovago per l'area prodotti antistante il bancone del bar. C'è di tutto di più. Ma non ci sono libri: neanche Fabio Volo e l'immancabile Manuale sui benefici dell'Aloe Vera. Ripartiamo dopo 15 minuti e mentre salgo sul mezzo do un'occhiata alla luna piena che si erge lassù in mezzo alla lavagna del cielo. La mia amica è già seduta, mezza addormentata e sbuffa, perchè deve di nuovo ruotare e spostarsi sul sedile per farmi passare. Miss Uffa, si potrebbe chiamare. Il prossimo tema della telefonata ( ma a questa qui le telefonano in piena notte, devo dirlo a Lucia, se conoscessi Lucia) a Parigi i coiffeur parlano di libri, che città strana. Ripartiamo. Lei si addormenta, io vado avanti con Nietzsche.


L'alba del tavoliere ci coglie con un paesaggio di nubi frastagliate che assumono le forme più disparate. Una delle poche cose che assumono da questa parti. A parte gli africani che raccolgono pomodori per 18 ore al giorno. Per questo uno se ne va. Poi parliamoci chiaro, con duemila e tre, fra affitto, spesa, aperitivi e qualche vestitino all'H&M , che ci resta? Due dita negli occhi. Per questo devi comprati gli occhiali da vista stilizzati di tartaruga. Dici, ma tu anche sei un'emigrante. No. Io sono un viaggiatore, sono andato a Milano per amore. E poi quand'è finito, sono rimasto e ho vissuto.


Cominciamo a fermarci nei vari paesi del barese e i passeggeri scendono. Recuperano dal bagagliaio enormi valigie vuote. Che riempiranno con ogni ben di Dio alimentare al ritorno. A questo servono le valigie quando torni.

A Ruvo di Puglia la mia compagna di viaggio non salutante e sconosciuta, finalmente scende. Prima di lasciare l'autobus, sbuffa, Uffa è il suo saluto. Stiamo tutti morendo lontani dalle nostre radici, eppure c'è chi pensa di morire meglio degli altri. Aver compagno al duol scema scema scema....






mercoledì 19 aprile 2023

Guerre stellari, seconda parte

 




Il viaggio (Parte 2 di Guerre Stellari)

Uno degli autisti, che poi si danno il cambio alla guida , chiede dove andiamo. Ad Ostuni, dico. Mi invita a seguirlo e metto il mio trolley nel portabagagli posteriore sull'autobus. L'altro autista, un tipo ageè corpulento e brizzolato controlla con lo scanner del telefonino il mio biglietto: Posto 27, in alto, afferma con accento barese. Salgo da una scaletta interna all'autobus bipiano, individuo il mio posto e mi siedo. Le poltrone sono comode e , per il momento, il posto a fianco a me è vuoto. Individuo sotto la poltrona la presa del carica batterie del cellulare e lo collego. Buio, ora, 20,30 circa. Pochi minuti dopo l'autobus parte e mentre siamo in movimento serpeggiando col mezzo in mezzo alla panoplia di altri autobus, l'autista in seconda passa a contare i passeggeri. Metà posti sono vuoti, ma dobbiamo fermarci a San Donato dove ci aspetta un altro carico umano. I passeggeri sono variegati, giovani, di mezz'età, qualche anziano, due o tre gender fluid ( il look è quello, perlomeno) orecchini a naso e orecchie e quei terribili auricolari senza fili che ti danno la possibilità di parlare al telefono sembrando pazzi che parlano da soli. Lungo la tangenziale trafficata, andiamo lenti e già accumuliamo ritardo. Saranno dodici ore di viaggio circa, prima di arrivare a destinazione. A San Donato imbarchiamo l'altro carico e io conoscerò il mio compagno o compagna di viaggio del posto accanto. E' una ragazza sui trent'anni, bionda, molto magra, occhiali da vista stilizzati, auricolari senza fili infilati nelle orecchie, pantaloni da tuta e maglioncino a maniche verdi. Ha con sé uno zainetto e vari apparati elettronici che non capisco come riesca a tenere tutti insieme, tipo cellulare e ipad. Si siede senza alcun saluto e convenevole, osservandomi come un insetto un insettofoba, con fastidio, quasi. Lo noto dalla sua espressione scocciata/imbronciata. Dopo essersi seduta dà un'occhiata nei due sedili a fianco, in meszzo c'è il corridoio. Lì sono sedute due ragazze, una, sul corridoio, sui quaranta e con a fianco una ragazza molto giovane che ha preso a gonfiare un cuscino che presumibilmente infilerà tipo collare post colpo di frusta, per avere un giusto confort durante il viaggio, preludente una pronosticabile dormita. Poco dopo l'autobus riparte e ci infiliamo nella tangenziale e poi passato il casello, in autostrada. L'orologio a datario iridescente nel buio incipiente in cui è sceso l'autobus, mostra giorno e ora completamente sballati( cosa che ho notato sempre in tutti gli autobus della Marino presi in tutti questi anni migratori su è giù tra Milano e Puglia e viceversa). Nel prosieguo del viaggio accendo la lucetta per leggere un libro che ho con me, “Al di là del bene e del male”, di Nietzsche. La mia compagna coscritta di viaggio mi osserva come uno pterodattilo. Sono l'unico che ha acceso la lucetta da lettura e si dà da fare a sfogliare un libro cartaceo. Lei per tutta risposta accende l'Ipad e comincia a guardarsi un film. Per fortuna ha gli auricolari per cui non mi disturba. Ma poco dopo iniziano le telefonate di rito poco prima della partenza. La giovane accanto al finestrino opposto al mio, che anche io sono sul finestrino, quella del cuscino gonfiato, riccia, occhialuta anche lei, ad alta voce, inizia una conversazione con un'amica che inizia con : “adesso cerco di spiegarti che problemi ha Lucia”. Si preannuncia un trattato orale di shampismo verbale militante spacciato per trattato di psicologia....Tutto l'autobus ascolta i fatti suoi...o meglio, di Lucia. E ci vuol poco a capire che questa Lucia non è una santa, nonostante il nome da santa, perlomeno nella disamina della sua pseudoamica. La mia compagna di viaggio, a fianco, riceve una telefonata, per cui risponde e continua, contemporaneamente a seguire il film. All'inizio, risponde annoiata. Sembra sia una sua amica. Parlano di lavoro, di design week, e del fatto che durante le vacanze pasquali, per un giorno, deve andare a Roma, da un cliente. Io la guardo di proposito dopo che dice “cliente”, così, per misurare il disagio di un fraintendimento...che volete, sono fatto così. Lei si schermisce e finge di posare lo sguardo su un film del quale non sembra importarle molto. Io torno a Nietzsche. Dopo un po' la giovane gonfiatrice di cuscini è impegnata nel racconto di Lucia e ormai tutto l'autobus sa che questa Lucia le ha soffiato il ragazzo, del quale, mi pare di capire, la gonfiatrice di cuscini rimpiange il patrimonio familiare, mentre dalla mia vicina sono venuto ad apprendere che è di Molfetta e che sta per andare a Londra in missione e poi a Parigi...Mi mette a parte malgrè moi dello stipendio del suo ragazzo, sui duemila e due e di una sua amica che vive e lavora a Parigi ma è costretta da quel coglione (testuale) del suo ragazzo, che accetta solo lavori saltuari e mal pagati, a vivere in un quartiere di negri e morti di fame ( testuale), mentre lei viene da Bevery Hills (Molfetta), quest'ultima cosa la aggiungo io mentalmente. E già a continuare con una spatafiata di critiche agli stipendi di gente che conosce e che definisce amici e che sarebbero degli sfigati che non accettano i suoi consigli, che, udite udite, l'avrebbero portata sui duemila e tre ( e sticazzi?). Poi finalmente, dopo aver lanciato due o tre altre frecciatine, si tace, non senza prima concludere col dire che ora avrebbe finito di vedere la serie tv che stava guardando. Finalmente portò leggere Nietzsche in santa pace, penso.


martedì 18 aprile 2023

Guerre stellari

 



Guerre stellari (prima parte del racconto di un viaggio)



Stazione della metropolitana, Lampugnano, Milano. Ci arrivo dopo un viaggio in metro tra linea verde e rossa della metropolitana milanese. All'uscita dei tornelli senegalesi vendono borse e altro, il tutto posato su teli pronti per essere richiusi in un batter di ciglio all'arrivo della Polizia Locale. Tutti i neri inforcano occhiali da sole, 18,30 di un giovedì. Devo prendere un autobus della Marino per andare ad Ostuni, in Puglia, per una manciata di giorni di ferie pasquali. Fuori da questo edificio di mattoni rossi della fermata della metro di Lampugnano che fa molto case di mattoni rossi di Lowell di Kerouachiana memoria, un caravanserraglio, un suk, di passeggeri in attesa di enormi autobus che li porteranno in giro per l'Italia presso i rispettivi affetti familiari e non... e comunque affetti. Sembrano i dintorni di un quartiere di una città di un pianeta sperduto preso a prestito da Guerre Stellari: arabi, africani, est europei, italiani del sud...siedono su panchine sotto le pensiline, poco fuori, in attesa dei potenti mezzi gommati che come balene d'acciaio ci accoglieranno come tanti minuscoli Giona in ventri cetacei popolati di vertebre di poltrone di pelle che non mancano di tavolini e prese per immancabili smartphone. Una ragazza orientale, Thay o Filippine, mangia spaghetti al sugo seduta su una panchina circondata di trolley che paiono robottini di Star Wars. E lo fa con piacere, appetito, avidità, come fosse l'ultimo pasto di un'ultima cena di un leader di una qualsiasi religione in cui credere. A cui aggrapparsi. Un autobus albanese scarica alcune peruviane che ne devono in seguito prendere un altro per chissà dove. Fuori, di fronte alle pensiline, palazzoni di uffici della metropolitana e intorno cortei volanti di rondini riapparse miracolosamente da anni in una Milano ormai patria degli storni e dei piccioni. Vago con il mio trolley al seguito e registro tutto con lo sguardo e una memoria visiva, filmica quasi, di cui la natura mi ha dotato: posso osservare un volto a Barcellona per cinque minuti e riconoscerlo anni dopo sotto la Fontana di Trevi. Conosco solo uno scrittore che era capace di questo: si chiamava Jack Kerouac. Gli autisti della Marino confabulano tra loro. Complessioni robuste e accenti di ogni parte della Puglia. Spuntano look fluid gender, capelli lunghi raccolti in codini e metrosessualismi di maniera, più che di sostanza, conditi da accenti baresi che per le loro intonazioni posso assimilare a partecipanti di gay pride parigini. Rientro dentro l'edificio di mattoni rossi, zigzagando in mezzo ad un gruppo di africane dai somatici mascolini e dai capelli caratteristici a trecce che ci vuole una vita a farseli fare, mentre guardano una sitcom senegalese o nigeriana ambientata in case alla Bevery Hills con tappeti di pelli di leopardo in terra, fra poltrone e divani in pelle e tamburi d'immaginazione... Dentro l'edificio c'è un bar che vende caffè e cornetti in stile american bar, dietro il bancone c'è un indiano che dispensa sorrisi in stile Bollywood. Accanto, poco fuori, tavolini ospitano abitanti del pianeta delle più disparate razze e favelle. Al centro, seduto ad un tavolino, un clochard con in testa un cappellino di lana giallorosso tipo del Lecce. Fuma una sigaretta handmade, fuori c'è ancora il sole, ma fa freddo. Un arabo con un vespino con sul retro una cassettina per asporti, si muove fra i passeggeri in attesa offrendo pizze e kebab a costi stracciati che giura essere ancora caldi e appetitosi come appena fatti. Fuma una sigaretta in attesa si piazzare la sua mercanzia. Più indietro, percorrendo uno stretto budello fra pareti di mattoni rossi, si giunge ad un altro bar, più traditional, con il solito corredo del mordi e fuggi alimentare da viaggio di pizze pizzette e focacce, ben esposte sotto un vetro davanti al bancobar. Sta per chiudere, quasi, ore 19,30. Ritorno verso le pensiline. Un'africana carina con le gambe arcuate fasciate da jeans attillatissimi, capelli lunghi trecciati, molla una valigia a rotelle ad un giovane africano seduto ad un tavolino all'aperto facendo segno di dover andare in bagno e che badasse lui al bagaglio, nel mentre. Non so quanti italiani farebbero la stessa cosa. Ma lei lo fa all'insegna del “we trust in you.” Torno verso le pensiline e ascolto, pur nel vociare tremendo, in sottofondo, lo stridìo delle rondini che si rincorrono in cielo lassù in alto su alberi striminziti di una specie di giardino sullo sfondo del quale intravedo un camioncino che vende panini caldi. Chiedo ad un uomo in divisa blu della Marino, cappellino di lana calato in testa, occhiali oscurati anche da vista, dove portò prendere il mio autobus. Vado ad Ostuni, dico. Marciapiede b è la risposta sintetica. Ha in mano una cartelletta in cui immagino siano segnati tutti gli autobus, annotati con dovizia. Deve essere una sorta di organizzatore di terra che non salirà a guidare alcun autobus...per questa volta, per questo giorno.


lunedì 3 aprile 2023

Lettera aperta allo Stato italiano che tassa i piccoli scrittori!

 


Non tassate i piccoli autori. Lettera aperta allo Stato Italiano!



Eccoci qui, cari amici e compagni di strada. Siate o meno social, le urla di chi vuole comunicare al mondo vi giungeranno comunque, in qualche forma. Seduto davanti al mio portatile, fuori giornata di sole. Il grande Henry Miller definì l'atto di mettersi a scrivere “ una meravigliosa tortura”. Scrivere serve a molte cose. Innanzitutto a liberarsi dei pensieri, che se restano vaganti nella scatola cranica diventano a lungo andare molesti e in qualche senso innescano un'implosione emozionale. Scrivere vuol dire comunicare a se stessi e al mondo o agli amici o a chiunque voglia leggere e ritrovarsi nelle parole di chi scrive o perdersi definitivamente. Ma come diceva il buon Kerouac, a proposito del perdersi, se non sai dove stai andando come fai a dire che ti sei perso? Qualcuno potrebbe dire, ma quand'è che dici qualcosa di tuo? Quando la smetti di parlare con frasi di altri? Le frasi, cari miei, sono di chi le usa molto più che di chi le ha scritte. Ecco come stanno le cose. La filosofia non serve a niente, dicono in molti. Certo non dà risposte definitive, piuttosto semina dubbi. E noi dei dubbi abbiamo bisogno. Sono le certezze che poi quando si sgretolano ci mandano in pezzi. Chi non è sicuro di niente è in realtà più sicuro di chi è sicuro di tutto. E' questa la sua sicurezza. Ci sono filosofi e scrittori che dopo anni di anonimato sono diventati popolari. Popolari fra il pubblico dei lettori, chiaramente. Che è sempre più in diminuzione. Ma perchè dovremmo cessare di scrivere, se non scriviamo bestsellers? Noi parliamo ai noi stessi disseminati nel mondo e questa potrebbe essere una delle maggiori forme di libertà. Il successo, secondo Pasolini (altra citazione, tieh!) potrebbe essere l'altra faccia della medaglia della persecuzione. Vogliono tutti avere successo. Ma poi odiano le masse. Il successo nasce dall'odio delle masse che non si accorgono che chi scrive di esse le disprezza profondamente e usa il loro clamore per elevarsi su di esse. Personalmente credo che quando crei qualcosa con passione vera, autentica, senza pose e con l'ego che tira il freno a mano, beh, che dire...questa cosa arriva. Ma deve essere un processo spontaneo e sincero, non una tattica o una strategia. Spesso il senso dell'essere artisti viene dalle parole di artisti non ritenuti tali a tutto tondo o superficiali o mainstream e quindi , perciò, poco credibili. Sentii dire a Elodie, dopo aver cantato a Sanremo parole da incorniciare circa la sostanza dell'essere artisti, dell'essere creativi. Ho lavorato con passione, disse, e dato tutto, con molta serietà e dedizione. Tutto ciò che accade dopo è frutto dei maghi che truccano e dei pubblicitari e dei clown vestiti a funerale. Quello che importa è aver fatto un buon lavoro che soddisfa te stesso. Se soddisfa anche il pubblico va bene. Se non lo soddisfa , rispetti il pubblico, ma non cessi di rispettare te stesso. Non l'ha detto un filosofo, ma una cantante di musica leggera. La filosofia , ecco, potrebbe servire a isolare, in una nuvolaglia di parole e proclami senza senso, il senso compiuto dell'attività creativa. Perchè, in definitiva, creare è parte essenziale dell'essere felici. Tutto ciò che ne consegue in termini di allori e premi e riconoscimenti, sono contorni. Ma il piatto forte è e resta: creare. Burroughs disse che creare ,e, in definitiva, scrivere, determinava, nello scrittore, un senso di colpa. Perchè è come se scippasse il meccanismo della creazione al creatore per antonomasia, in altre parole a Dio. Scrivere è servito ai filosofi, per cercare di definire il mondo, agli scrittori per raccontarlo, ai comici per scrivere i testi che avrebbero recitato, agli attori di teatro, persino ai deejay, i cui più seri scrivono un canovaccio dell'intera trasmissione che deve andare in onda. Ma anche leggere serve e forse più che scrivere. E lo dice uno che scrive e che pensa che siano molti più quelli che scrivono di quelli che leggono. Ma scrivere senza aver letto e senza leggere non porta lontano. Avere mai visto un uccello senza coda? Un canarino muto? Un Pappagallo che dice cose originali? Un pesce che va in bicicletta? Puoi andare avanti quanto vuoi nella vita, e spesso succede, senza leggere. Ma arriverà un momento in cui quella cosa ti mancherà. E non potrai fare lo scatto e il balzo definitivo per compierti come essere umano. Non potrai per esempio dirmi a commento di quello che scrivo, ma che stai dicendo? Ecco, appunto, me lo puoi dire perchè mi hai letto. E' così che si sviluppa la mente. E forse si sviluppa meglio la mente di chi legge di quella di chi scrive più di quanto legga. Non lo so. E' un dubbio. E' una delle domande che pone l'essere filosofi...senza laurea ( sono molto modestamente laureato solo in Scienze Politiche e ho fatto un solo esame di Filosofia della Scienza). Senza la panoplia di
scrittori che ha scritto senza studiare e laurearsi, ma vivendo di stenti e di lavori precari, ingegni che hanno mosso l'economia di migliaia di stamperie, editori, Università, giornali , tv e internet, la cultura non esisterebbe. Vaglielo a dire a un paese che tassa i profitti derivanti dalla vendita di libri a un piccolo scrittore come me! Ci sono paesi in cui gli scrittori ricevono uno stipendio dallo stato. Io non anelo a questo, ma perlomeno, caro STATO ITALIANO, non tassare i pochi profitti che guadagno e che reinvesto in nuove pubblicazioni. Equivale ad una censura sulla circolazione delle idee. Equivale a dire, possono pubblicare solo quelli (raccomandati e non) autorizzati da editori ricchi che faranno scrivere solo ciò che conviene e chi ricco lo deve restare.