domenica 3 luglio 2022

Il nipote del partigiano!

 Carlo, un mio quasi trentennale collega di lavoro, nonchè amico è anche, insospettabilmente, un uomo di montagna. Ricordate una cosa, non si è uomini di montagna se non si ama la libertà e non si è uomini di montagna se non si ama la giustizia. Sono cose che la montagna, la vita di montagna, insegnano. Ogni tanto, compatibilmente con gli impegni familiari e di lavoro, chiedo a Carlo quando è libero, per andare a farci una camminata in montagna. Ci incontriamo sul ballatoio dell'Ikea e ci salutiamo. E' un uomo di poche parole, Carlo, schietto e sincero, pratico e stringato, come si addice ad un uomo di montagna. Ci incontriamo e solitamente gli chiedo-quando andiamo in montagna? La risposta è sempre cordiale e immediata, quando vuoi, non hai che da chiedere. Poi scorriamo su un foglietto i turni di lavoro e decidiamo. Non sempre è facile riuscire a trovare un turno libero coincidente. E questa è uno dei tanti inconvenienti del vivere in un mondo cosiddetto libero e democratico. Il lavoro prima di tutto, se vuoi campare. La montagna deve  aspettare. Ma tanto lei aspetta, è imperitura e immortale e ci sarà per sempre. Riscaldamento climatico o meno. Anche perchè costruire da quelle parti costa troppo e il gioco non varrebbe la candela, per sedicenti speculatori edili.

Qualche giorno fa è accaduto, ci siamo incontrati sul ballatoio e gli ho detto-quando andiamo in montagna? Sabato sono libero. Sabato andiamo, è stata la sua risposta. Ti mando il percorso su whatsapp stasera, ha aggiunto. Lo cerco adeguato alle tue caratteristiche. Scoprirò poi cosa volesse dire, adeguato alla mie caratteristiche e scoprirò cosa significa essere uomini di montagna. La montagna è una scienza, non proprio esatta, ma per affrontarla devi essere preparato, non è una cosa da prendere sotto gamba. 

Un'altra cosa, io e Carlo siamo coetanei, abbiano entrambi 57 anni. Lui non conosce le mie abitudini ginniche, ne' se ne ho, mi ha studiato a vista morfologicamente e poi ha deciso il percorso. Non esistono pagamenti, per queste cose, non esistono compensi, perchè sono cose che non generano profitto, ma dovrebbero essercene. Eppure il premio che ne deriva è , come vedremo, impagabile.

A sera mi manda un link su whatsapp con il percorso. Più o meno sei ore di camminata tra andata e ritorno. Da Culmine San Pietro ai Piani di Artavaggio. L'idea è di arrivare verso l'ora di pranzo presso un rifugio ai piani di Artavaggio, Valsassina, provincia di Lecco, consumare un pasto di montagna e ridiscendere poco dopo. Si parte in macchina da Arese, dove abita. Si arriva in quota, sino ad un certo punto. Si parcheggia e via, si sale verso il cielo azzurro infinito. Ci mettiamo una quarantina di minuti, ad arrivare nel punto previsto, nonostante il traffico intenso. Fa molto caldo e nel week end i milanesi si spostano verso laghi e montagna. L'ultimo tratto, prima di parcheggiare, è costituito da una strada stretta dove a stento le auto che si incontrano, ci passano incrociandosi, se non con una certa prudenza e accortezza. Cosa che la maggior parte degli spericolati frequentatori automobilistici del tratto, non posseggono. Vanno come matti.

Giunti nei pressi di una curva a gomito, Carlo mi invita a parcheggiare tra due altre auto, sul limine di un tratturo che si apre in mezzo ad un bosco. Una volta scesi dall'auto ci prepariamo. L'equipaggiamento è leggero, zainetto, con necessario ricambio, meglio se c'è anche un k-way o un maglioncino più pesante, borracce piene d'acqua, scarpe da trekking, cappellino e occhiali da sole: cruciali, questi ultimi, perchè il sole di montagna acceca e ne fanno preferire, degli stessi,  la funzione protettiva a quelle del carisma e  sintomatico mistero. Una volta pronti si parte. Sono entusiasta. Partendo da Corsico, dove abito, c'erano, già alle 7,30 di mattina, ben 35 gradi. Qui ci saranno 15 gradi. Tanta roba, come dicono maldestramente i giovani di oggi.

Sulla sinistra prendiamo una sterrata che ci porta ad attraversare un bosco di abeti, molto fitto, che digrada verso la valle. E' così fitto che in fondo alla scarpata è quasi buio, da non distinguere quasi nulla. Ed è fresco. Inizialmente non usiamo le bacchette da nordic walking, perchè ancora la salita non è ripida e ci godiamo la camminata semplice e il piacere della compagnia, nel silenzio rotto solo da gruppi di ciclisti che ci superano con le loro mountain bike elettriche a pedalata assistita. Ci si saluta tutti, in montagna e tutti ringraziano per aver loro ceduto il passo. Camminiamo per circa un'ora e ancora non vediamo alcun camminatore bipede come noi...solo queste bike a pedalata elettrica assistita che sembrano essere la moda del momento. Una moda che è in sintonia con l'italianità media, conquistata ormai dal consumismo all'americana, che ha nella pigrizia la pietra angolare di nuove generazioni completamente arresesi al godimento da ottenere col minimo di fatica...e senza preoccuparsi troppo della linea, tanto ci sono sempre le scorciatoie di dietologi e farmaci per dimagrire. Entrambi, io e Carlo, conveniamo su queste impressioni.

Andando avanti nel cammino, quasi non ci accorgiamo, che siamo circondati da panorami mozzafiato, casupole lontane circondate di greggi di pecore, che sembrano sfondi di quadri di pittori olandesi, verde accecante, rocce minerali...ogni tanto una stele di madonnina e abbeveratoi per armenti. Dico quasi non ci accorgiamo, perchè parliamo fitto, ci diciamo finalmente e di persona quello che non si ha mai il tempo di dirsi nelle scarse pause di lavoro e meno che mai sui socialmedia che falsano la percezione reale di qualsiasi racconto dal vivo. Carlo mi racconta che lui , intorno ai vent'anni, stava per diventare un alpinista professionista e che un brutto incidente, in cordata, mentre scalava un 4000 metri, gli ha quasi tolto la vita. Un moschettone si è staccato, mentre era in cordata con altri ed è rimasto appeso alla corda, salvato da un altro moschettone di sicurezza, svenuto, dopo che ha sbattuto la testa...Si è poi ritrovato dopo alcune ore in ospedale, ancora vivo. La vita è fatta di  attimi e ne basta uno storto che non ci sei più, commenta. Oggi non sarei più qui a parlare con te, dice. E mi colpisce il fatto che non accenni a Dio. Dopo quell'episodio, arrampicare non è più stata la stessa cosa...ho perso la sicurezza...aggiunge. Ma la passione per la montagna, quella gli è rimasta. La montagna è stata e sarà sempre la sua palestra. Salire sulle sterrate con le bacchette...per alcune ore...Non hai bisogno di alcuna palestra. 99% dei muscoli sollecitati, nemmeno il nuoto, dice, sorridendo debolmente.  

La giornata è solatia, ma la temperatura è fresca e soffiano brezze montane. Nonostante ciò l'impegno si sente e mi porta a sudare molto. Comincio ad usare le bacchette più spesso. Mano mano che saliamo , l'altitudine, agisce beneficamente sulla mia pressione, avendola, io, tendenzialmente bassa. Silenzio assordante, rotto solo dalla nostra conversazione fitta. In lontananza, ad un certo punto, il verso delle marmotte e quello di un aquila, che passa in volo così speditamente, che non riusciamo a scorgerla.

A tre quarti del percorso è il momento, per Carlo, di sciorinare i racconti su suo nonno...Il partigiano. Durante la guerra contrabbandava  il talco con la Val D'Aosta e insieme ai partigiani, produceva il sapone. Dalla vendita del sapone si finanziavano le organizzazioni combattentistiche antifasciste. Ne parla con ammirazione, Carlo, come uno di quei personaggi usciti da un romanzo sulla Resistenza. Anche suo nonno, uomo di montagna, non c'è che dire.Tra i tanti aneddoti che mi racconta me ne rimane impresso uno, goliardico e significativo, al tempo stesso. Dopo la guerra, suo nonno, osservando com'erano fatti i saponi commerciali, pieni di petrolati e sostanze chimiche dannose per la pelle, foriere di cistiti e irritazioni, ebbe a dire una volta a lui, a Carlo: vedrai che, prima o poi, faranno un sapone col profumo della fica, pur di venderlo. Ridiamo a crepapelle, perchè dietro questa storia c'è un'intera filosofia di vita.

Nell'ultimo tratto, prima di arrivare ai piani di Artavaggio, facciamo un percorso non in ombra, sotto un cielo d'un azzurro mai visto, trapuntato di nuvolette sparse come un immaginario gregge di pecore. Scenario incantevole. Incontriamo qualche camminatore, finalmente e io chiedo a Carlo se questi sono venuti prima di noi. La risposta è sarcastica e stringata, come sempre: questi sono saliti in macchina fino a pochi chilometri da qui. A piedi sarà un'oretta...O sono venuti in funivia. Ricordati che sono italiani...dice. Poi fa, ti ricordi quando ti ho portato sulla Grigna, al rifugio? Sì, gli dico, perchè so dove vuole arrivare: pieno di camminatori. E soprattutto di camminatrici, svizzere e tedesche. Che poi uno pensa che una donna che va in montagna, debba essere rustica e poco avvenente. Nient'affatto, questi sono luoghi comuni triti e ritriti buoni per puttanieri di provincia.

Giunti ai piani di Artavaggio, c'è una spianata e sulla spianata, di prati erbosi, in lontananza, si notano tre rifugi. Visti così, da quella prospettiva, sembrano ad un tiro di schioppo. Carlo sorride ironico e dice: l'ultimo è il rifugio Nicola. Quello lì su. Un'altra mezz'ora di camminata. Te la senti? Se no ci fermiamo qui. E' quasi l'una  e un certo appetito si sta già facendo sentire. Ma io amo le sfide, per cui dico che proseguiamo.

L'ultimo tratto è molto ripido e io uso le bacchette come un forsennato, per aiutare l'azione della gambe. E' un tratto durissimo. Superiamo una coppietta  giovane, che, senza bastoni, arranca. Carlo è uno spilungone, capelli brizzolati, corti, molto magro. Aziona le gambe con la grazia di una gazzella, sembra non provare alcuna fatica. Ad un certo punto mi distanzia. La salita si fa ancora più ripida e io sono costretto a fermarmi un paio di volte. La montagna insegna molte cose, una di queste è che ti mette davanti ai tuoi limiti. E io avevo forzato troppo senza mantenere un passo costante. Comunque alla fine, non senza troppo distacco, ce la faccio a raggiungere il rifugio. Lo si vedeva già con la sua struttura piramidale, costruito così per ricordare il vicino monte Sodadura, visibile non lontano ad est del rifugio.

Giunti davanti al rifugio, un grande spiazzo erboso, ospita panche e tavolini, non ancora del tutto pieni di gente che sta mangiando. Ci fermiamo vicino ad uno di questi tavolacci. Ci cambiamo subito, asciugandoci il sudore. Io bevo un pò d'acqua dal mio thermos  prelevata poco prima da una fontana di montagna vicino ad una chiesetta che e' simile ad una dacia russa. 

Una volta riassettati, saliamo da una scaletta per entrare nel bar ristorante del Rifugio. Davanti avevo notato che il rifugio si è anche attrezzato con ricariche elettriche per le bici a pedalata assistita. Però, dico, c'è molta più gente qui seduta a mangiare, di quella che abbiamo incontrato in giro. Carlo sorride e non commenta. Ha già detto la sua , al riguardo.

Entriamo. Dentro ci sono dei tavoli lignei tipici della baita di montagna. Dietro al banco del bar c'è un tizio sulla quarantina che prende le ordinazioni. Una volta pagato, si passa a fianco al self service, dietro il quale c'è un anziano che serve i pasti. Carlo mi dice che si tratta di Angelo, colui che aveva fondato il rifugio, intitolandolo a suo padre, Nicola Esposito, morto in un incidente di montagna nel '67. Che ironia della sorte, l'ospitalità  della montagna, affidata a gente dal cognome tipicamente napoletano. E dire che  che sono tutti nativi della zona. 

Io prendo un tris , costituito da, polenta taragna, funghi, salsiccia e cervo in salmì. Carlo una pasta al pomodoro. Con il nostro vassoio, riscendiamo dalla scaletta e ci sediamo al nostro tavolo, occupato dai nostri zaini. Mentre mangiamo, all'aperto, sotto quel cielo azzurro, e comincia a fare freschetto, tanto che ci muniamo rispettivamente di k-way e maglioncino, chiedo a Carlo come mai non ha preso il mio piatto. Tipico piatto di montagna, con polenta  e cacciagione. Sono vegetariano, mi annuncia. Per motivi etici e salutistici. Ma non ho nulla contro chi mangia la carne. Non sono un fanatico intollerante. Altra cosa che non sapevo. Passano gli anni e tu devi fare una camminata in montagna per conoscere particolari dei tuoi amici. Mentre mangiamo un cagnolino ci fa le feste e Carlo gli lancia dei pezzettini di pane. Il mio piatto è favoloso e il sapore della polenta ineguagliabile. Una giusta ricompensa allo sforzo delle tre ore di camminata. 

Una volta consumato il pasto, diamo un'occhiata in giro, risaliamo verso il bar dalla scaletta esterna per un caffè e via. Ci prepariamo alla discesa. Tornando all'essere vegetariani di Carlo gli cito un libro di Safran Foer in cui lo scrittore americano racconta con orrore   di ciò che ha visto infilandosi clandestinamente in allevamenti intensivi di polli e altri animali. Non ricordo il titolo, però. E aggiungo, da animista quale mi ritengo, non posso non pensare che mangiare la carne di un animale costretto a vivere in due metri quadri non possa che portare conseguenze nefaste anche sull'anima di chi mangia quella carne. C'è chi dice, i miei amici indigeni, lo dicono, che se mangi la carne di un animale che ha sofferto, non può non trasmetterti parte di quella sofferenza, dico. Che tradotto scientificamente, aggiungo, ci porta alla constatazione che le sofferenze dell'animale potrebbero aver portato a produrre delle tossine che alla fine incidono sulla qualità della sua carne. Carlo annuisce con il capo, interessato. 

Ripassiamo a lato dell'Albergo sciatori, un albergo enorme in mezzo ad un prato, ora completamente abbandonato. Se scrivi un pezzo sul tuo blog, dice Carlo, puoi citare questo albergo come esempio di monumento ai disastri che sta producendo il cambiamento climatico. Non posso che confermare che l'esempio è calzante. Lì non nevica più come prima e l'albergo non è più frequentato da anni. Il cambiamento climatico fa fuori anche posti di lavoro. E be', si, se sto scrivendo questo pezzo oggi è anche perchè l'idea me l'ha data Carlo. Mio fraterno amico. Il nipote del partigiano. Qualcuno che in un giorno trascorso insieme mi ha insegnato più cose di interi tomi di storie e antropologia. 

Il ritorno, in discesa e' piu' semplice.  Ed è foriero di nuovi ragionamenti e di dialoghi sempre intensi e interessanti. Carlo mi parla del concetto di riuso. La più grande battaglia che puoi combattere contro un nuovo e piu'insidioso fascismo: il consumismo. E anche questo concetto non puo' non venire dal nonno partigiano.

Sono davanti al pc.  Fa caldo. Scrivo questo pezzo e rivivo la gioia dei momenti trascorsi. Scrivere è rammentare e reinventare. Pure se quello che ho scritto è tutto vero. Parola per parola. Ma non potrò mai scrivere quello che si vive, quello che si è vissuto insieme. Perchè la vita vissuta è una scrittura fatta per i ricordi della mente. Che muoiono con te. O forse non muoiono mai.

Link del percorso creato da Carlo:

https://www.komoot.it/tour/828813863?ref=wtd-m










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