martedì 30 maggio 2023

Bari (parte due), Magda

 

                                             Bari (Seconda parte) , Magda.


Percorro a ritroso la strada che ho appena fatto, con l'intenzione di visitare un altro dei luoghi del ricordo, in questo caso di tipo gastronomico, che risalgono agli anni a cavallo fra l'85 e il  '91. Mi riferisco a Magda, storico panificio barese che ha deliziato da tempo immemore i palati di migliaia di studenti ( e non solo studenti) con la sua fcazz( la focaccia) fatta secondo regola, alla barese. Percorsi 200 metri, superato il parco di piazza Umberto, sulla destra, immortale e immarcescibile, seppur ristrutturato e reso in design ultramoderno, il panificio “Magda”, mi appare in tutto il suo splendore pavlovianamente foriero di salivazione pregustativa. Entro e mi metto in coda. All'ingresso, sulla destra, c'è un'anziana cassiera bionda che dev'essere una sorta di caporale di giornata in salsa rosa. Lo deduco da come osserva le lavoranti dietro al bancone, mentre tagliano e pesano la focaccia e da come approva o disapprova col capo. Prendo due pezzi di focaccia al pomodoro (rigorosamente e Gerini muta) e una bottiglietta di acqua naturale, dico alla dinamica ed esoticamente mediterranea, mora, che armeggia dietro al bancone come una prestigiatrice, abituata a sorridere davanti e accoltellare con morti e stramorti, una volta che si collocherà fuori da tuo focus , ed esco. Scelgo una panchina di pietra dietro il tronco striminzito di una palma e sotto quel sole malato che stenta a filtrare dalle nuvole, addento la mia fecazza ( o fcazz) alla barese, che qualcuno vorrebbe a giusta ragione includere nell'elenco delle bellezze ritenute patrimonio dell'umanità. Ad ogni morso, cambia il sapore, a seconda che si addenti la parte più bruciacchiata o meno. Questa focaccia è stata messa in forno appena fatta, senza che potesse ulteriormente lievitare e consumata così, calda, appena uscita, con i pomodorini ciliegino che ti ustionano il palato. Condizioni perfette! Finito il fiero pasto, su quella panchina, con la certezza che nessun ristorante avrebbe potuto trasferirmi quel sapore e quella circostanza di consumo faninaceo “alla crudele”, come amava dire mio padre delle situazioni culinarie spartane nelle quali prevale la voglia irrefrenabile dell'assaggio alla situazione di comodità intorno, proseguo dritto verso via Melo. Verso un altro dei luoghi del ricordo miei preferiti: La Feltrinelli.


Continua...


lunedì 29 maggio 2023

Bari ( parte uno), ricordi de La pantera

 

Bari (Prima parte)


Scendo alla stazione di Bari, un pomeriggio di maggio 2023, ore 15 circa. Fa caldo ma il sole è coperto da strane nubi attraverso le quali riesce con fatica a filtrare rendendo le immagini che mi si parano davanti sotto un effetto seppia, quasi in bianco e nero. Uscendo dalla stazione, davanti, al centro della piazza che si chiama Aldo Moro, c'è una fontana che zampilla e un vento caldo grecale ne vaporizza gli spruzzi facendo sembrare le auto che passano veloci degli ectoplasmi in fuga dagli umani. Sui lati della piazza ci sono alcuni giardini cintati da alcune siepi con al centro delle palme altissime che rendono l'approccio con la città molto africano. Sotto le palme le panchine di pietra sono affollate di giovani multietnici che bevono Peroni piccole e fumano sigarette Winston Blue. Proseguo dritto di fronte a me, la stazione alle spalle, e mi infilo in una strada ammattonata grigia con vari bar sui lati ed al centro panchine stilizzate postmoderne con su seduti vecchi con cappelli tipo panama ma di paglia. Subito mi trovo di fronte a Piazza Umberto, costituita da un'ampia strada pedonale al centro e un mucchio di siepi contrappuntate da palme africane altissime , distribuite geometricemente. Sulle panchine molti africani, nigeriani, senegalesi. Abitano nei pressi e forse il parco è il loro giardino personale sotto casa. Invece di proseguire dritto per il parco della piazza, viro a sinistra, voglio andare a vedere la mia vecchia facoltà, dove mi sono preso una laurea più di trent'anni fa, con il professor Matteo Pizzigallo e Franco Cassano, grande sociologo, in commissione a farmi domande, curioso...tanto per parlare di due grandi menti che non ci sono più. A destra il parallelepipedo d'epoca dell'Università degli studi di Bari, le facoltà di Lettere e Filosofia. Cento metri più in là, sempre sulla destra, la facoltà di Giurisprudenza. Davanti ci sono transenne e lavori in corso e i soliti giardini con degli alberelli striminziti. Non li ricordavo. Salgo le scale del vasto palazzone, tutto sommato in stile tutt'ora moderno, non senza una certa emozione. Davanti c'è una vetrata che reca una scritta che recita così: Facoltà di Giurispudenza e, accanto, Dipartimento di Scienza Politiche. Sono un cronista del pianeta Terra, con gli occhi filmo, con il cervello registro e filtro. Le emozioni mi assalgono all'improvviso. Nello spiazzo interno che si apre fra le ali del palazzone c'è la statua di Minerva. E già all'epoca ti dicevano di non fissarla troppo se volevi laurearti. Sui lati , di fronte alla statua, ci sono delle scale metalliche a vista che portano ai piani superiori. Non le ricordavo. Salgo sulla scala destra e, in cima, sul pianerottolo, ci sono 4 ragazze androgine che discutono animatamente di amori e disamori. Entro scostando la porta a vetri. A sinistra un corridoio con aule chiuse e una invece aperta. E' piena di studenti e si sta tenendo un esame. Due o tre di loro hanno le gambe incrociate ed un principio di dissenteria incipiente. Ridiscendo dalla scala metallica, fra gli sguardi perplessi di alcuni studenti che si stanno chiedendo come mai uno con i capelli bianchi e la faccia da professore che evidentemente non è il bidello, si stia aggirando furtivo per i loro corridoi. Una volta ridisceso dalla scala, mi dirigo a destra, dove c'è Scienze Politiche, una facoltà che rifarei tutta la vita, nonostante non sia foriera di sbocchi professionali certi. Il bidello, molto più giovane di quello dei miei tempi, che si chiamava Gazzillo era tarchiato ed era di Adelfia, mi osserva anche lui con sospetto. Questo è più magro ma ugualmente tarchiato. Entro nella mia ex facoltà e le emozioni tornano ad assalirmi. Sono passati più di trent'anni, ma non è cambiato niente, sul piano laterizio. L'aula “Samarcanda”, all'epoca l'avevamo chiamata così, sempre piena di studenti e diretta promanazione del movimento studentesco “La Pantera”, la seconda a sinistra, è chiusa. Le porte chiuse marrone chiaro bardate di liste metalliche sono il simbolo di un passato che non tornerà più. Non tornerà più quel movimento animato da giovani pugliesi di tutte le province, ma anche lucani, che, emanazione del più vasto e nazionale movimento che prese nome “La Pantera” in onore di un felino scappato da un circo e mai più ritrovato, scesero in lotta contro una legge che voleva privatizzare le università ed emanata dall'allora ministro della pubblica istruzione, socialista, Ruberti. Una quantità assurda di ricordi mi si affolla nella mente, quasi da scriverci su un libro, per quantità e qualità: ricordo le assemblee, durante le occupazioni, con gli atenei di tutt'Italia che ci comunicavano momenti e risultati della lotta via fax ( allora internet non c'era). E ricordo che ci fu un corteo , a Roma, il cui spezzone più numeroso fu proprio il nostro, quello pugliese. E ricordo che sul palco a parlare per tutto il movimento salì, non senza qualche remora ed emozione, un giovanissimo Dario Ginefra ( che diventerà anni dopo deputato del Pd). Ricordo anche, fra le altre cose, che vennero ad osservarci molti giornalisti, lungo il corteo, fra i quali scorgemmo Giuliano Zincone, editorialista di punta del Corriere della sera, di quegli anni. Zincone, avendoci osservati e avendo parlato con noi, in seguito, si accorse che noi dell'università di Bari eravamo i più numerosi e i meglio organizzati. E lo scrisse. Scrisse che la Pantera aveva la testa al sud e che gli atenei che sarebbero stati più penalizzati dalla privatizzazione sarebbero stati quelli meridionali. Ricordo che avevo portato con me il tamburello e che suonai pizziche durante tutto il corteo. E infine, non per importanza, ricordo la faccia d quel lucano che pose a simbolo del movimento della Pantera di Bari, la frase di Corrado Alvaro, che recitava così: la più grande disperazione che possa impossessarsi di una società, è il dubbio che vivere onestamente sia inutile”. La ricordo ancora a memoria. E Google muto! Che faccia che aveva, quel mio amico. Ma non ne ricordo più il nome, come se il vento del tempo ne avesse scolorito i caratteri, di quel nome, scritti con spray rosso su uno dei muri della mia scatola cranica.

Esco dalla facoltà e ritorno in strada.


domenica 7 maggio 2023

Anatomia dell'irrequietezza, quasi una recensione...

Anatomia dell'irrequietezza, quasi una recensione.


Sabato, maggio, fuori quasi trenta gradi. Oggi non lavoro e non posso proprio perdermi questa splendida giornata di sole. Da Corsico prendo l'autobus per Romolo. Da lì, dalla fermata della metro, scenderò in stazione centrale, a Milano. E' il giro classico che faccio quando vado a Milano e voglio fare il turista pur abitandoci a uno sputo. E fin qui, nulla questio. Ma voglio fare un esperimento. Porto con me il libro di Bruce Chatwin, Anatomia dell'irrequietezza. Lo leggerò in giro, sui mezzi, seduto su panchine di strada, in mezzo al bailamme della città. Un po' leggerò e un po' osserverò. Sarà come portarsi con sé un amico. A Corsico salgo sull'autobus 325. Ho atteso seduto su un muretto, che regge un' inferriata di un piccolo giardino di palazzi anni '50. Il caldo improvviso ha immediatamente passerellizzato i marciapiedi e puoi vedere un mucchio di ragazze che vestono mise provocanti e decisamente al risparmio di stoffa. Mentre sono seduto inforco gli occhiali da vista, tirandoli fuori dal marsupio verde militare. Apro il libro di Chatwin e inizio a leggere: “ In collegio avevo la mania degli atlanti e venivo regolarmente messo a bando per le storie incredibili che raccontavo. I ragazzi erano tenuti ad essere tanti piccoli conservatori, ma io non ho mai capito, né allora né adesso, le motivazioni del sistema di classe inglese. E nemmeno perchè, nel Guy Fawkes Day, del 1949 i maestri esortassero a bruciare in un falò l'effige di Clement Attlee, il primo ministro laburista. Io mi rammaricavo per Attlee e, mai, neanche nella mia fase capitalista, mi sono indotto a votare conservatore”. Potrei dire che sottoscrivo, penso. Richiuso il libro sono salito sull'autobus. Lungo il naviglio mi dirigo, sul mezzo, verso viale Cassala. Dall'altra parte del naviglio, in mezzo le acque popolate di imbarcazioni del famigerato circolo canottieri Olona, una stretta striscia di asfalto affollata di podisti, camminatori, ciclisti...alcuni a torso nudo. Sull'autobus affronto la prima parte del libro, dove Bruce narra tramite una lunga e meticolosa ricostruzione delle origini della sua famiglia. Ma lo scopo non è affatto quello di accreditarsi provenienze da lombi nobiliari. Viene da uomini e donne che sono state ai vertici della società ma anche ai margini e soprattutto da avventurieri e in particolare parla delle zie , zitelle, una delle quali, Jane, che aveva fatto l'infermiera, era stata un'artista. Pittrice , ritrattista e soprattutto grande lettrice di letteratura moderna. Diceva che l'inglese con cui scrivevano gli americani era più limpido di quello degli scrittori inglesi e che adorava la parola “arse”( culo), letta per la prima volta su un libro di Hemingway. La zia Gracie invece era amica della scrittrice Eleanor Dorly, che le aveva fatto conoscere il Circolo di Dublino. In viale Cassala devo scendere e l'autobus è affollatissimo. Due nere in abiti succinti e occhiali da sole alla Black Panthers fuori stagione, mi precedono nella discesa dall'autobus. E una ragazza mora, capelli fluenti, rossetto viola e cappello da strega con un abito dallo spacco vertiginoso che mostra un tatuaggio sulla coscia sinistra quasi del tutto scoperta.

Sceso nell'antro metropolitano, passo il tornello punzonando il biglietto e scendo sotto verso i treni. Resto in attesa in mezzo ad una Babele di asiatiche e peruviane. Osservo le asiatiche e le peruviane, le peruviane e le asiatiche...e alla fine non ne distinguo più la provenienza, dato l'esotismo dei visi alquanto confinante. Guardo le ragazze perchè sono più fantasiose nel vestire, più ardite, osano di più, in mezzo ad un nugolo di ragazzi maschi che vestono tutti uguali e anonimamente.

Arriva il treno per Stazione Centrale. Mi siedo appena il treno si ferma, nel primo sedile entrando a destra. Tutti si siedono nel sedile che almeno su un lato non confina con nessun altro essere umano. Potrebbe in questo caso derivare dalla giornata calda e dall'eccessivo affollamento dei treni dovuto al "Liberi Tutti" lanciato proprio oggi da tutti i media, riguardo al Covid. Riapro il libro a cui ho fatto un'orecchia, come ai vecchi tempi e senza improbabili segnalibri.

Per qualche tempo diedi ascolto al consiglio di seguire la tradizione familiare e studiare da architetto;ma essendo negato ai numeri avevo probabilità molto tenui di superare gli esami. L'ambizione di calcare le scene fu stroncata con garbo dai miei,” Direi che quanto ad assonanze con il sottoscritto, ci siamo in pieno. Mai sopportata la matematica. E non c'è insegnante che tenga: proprio negato. Ritorno indietro di qualche pagina per rileggermi con gusto Chatwin che parla di sua nonna, di Aberdeen, grande giocatrice alle corse dei cavalli , diceva che i cattolici erano pagani ed aveva un modo molto incisivo di esprimersi. Una volta di uno che si era affacciato a guardare nella cabina telefonica mentre telefonava disse che aveva la faccia come il culo di un bue senza lacoda a separarla. Sorrido di gusto e tutti intorno mi guardano come un pazzo. Intenti come sono a non ridere di un cazzo di niente compulsando i propri telefonini.

Per arrivare in Stazione Centrale è un lungo viaggio. Lungo le fermate salgono e scendono a decine. Presto l'aria all'interno del vagone si fa irrespirabile e l'odore acre del sudore diventa dominante. Non senza frammischiarsi ai profumi intensi con cui amano farsi il bagno la maggior parte di coloro che il bagno non lo fanno. E nemmeno la doccia. Nel frattempo leggo che Chatwin, poco interessato ai libri per ragazzi che gli capitava di leggere, tentò di scrivere un libro a sei anni. Il titolo era “sono una rondine” ma non sapevo ancora scrivere “fili del telefono”, aggiunge. In seguito frequentò biblioteche che gli schiusero le porte di libri di scrittori di viaggio: Baudelaire, Li Po e altri vagabondi cinesi, l'immancabile Rimbaud, Nerval e Blake.

Le fermate dove sale più gente sono Cadorna e Garibaldi, perchè lì si trovano gli snodi per le linee della metro di altri colori. Sono l'unico che legge un libro di carta. Una signora seduta a fianco sta scorrendo sul cellulare il rullo delle notizie che mischiano impietosamete l'Isola dei Famosi alle Bombe russe in Ucraina. Ad un certo punto resto folgorato da un pensiero di Chatwin. Mi pare chiaro che il libro è una raccolta di scritti, articoli, pagine di diari e racconti che vanno a formare una sorta di biografia letteraria dello scrittore, ma è questo pensiero che mi fa affezionare e mi fa capire la modestia dell'uomo, nonostante i successivi successi letterari: “A poco a poco l'idea di un libro cominciò a prendere forma. Doveva essere un'opera sfrenatamente ambiziosa e intollerante, una sorta di “Anatomia dell'irrequietezza”, imbastita intorno al detto di Pascal sullo starsene quieti nella propria stanzetta. Il discorso grosso modo era questo: l'uomo , umanizzandosi, aveva acquisito , insieme alle gambe dritte e al passo aitante, un'istinto migratorio, l'impulso a varcare lunghe distanze nel corso delle stagioni; questo impulso era inseparabile dal sistema nervoso centrale; e quando era tarpato da condizioni di vita sedentarie trovava sfogo nella violenza, nell'avidità, nella ricerca di prestigio o nella smania del nuovo. Ciò spiegherebbe come societa' mobili come gli zingari siano egualitarie, libere dalle cose e restie al cambiamento; e anche perchè, nell'intento di ristabilire l'armonia dello stato primigenio, tutti i grandi maestri-Buddha, Lao Tse e San Francesco- abbiano messo al centro del loro messaggio il pellegrinaggio perpetuo e raccomandato ai loro discepoli, letteralmente, di seguire la via.” Ma poi, successivamente Chatwin spiega che il libro pur lievitando, fu considerato impubblicabile e si sentì frustrato e fallito come scrittore. Già si manteneva lavorando nell'arte, per la precisione per la prestigiosa casa d'aste Soteby's. Per fortuna, pare dire. Perchè non si sente affatto competente. Ricordando, anzi, che si sentiva pervaso di un insano godimento, tutte le volte che individuava negli oggetti d'arte che i possessori volevano vendere a peso d'oro, che erano falsi. E questa attività alla casa d'aste, per il fatto stesso di esaminare centinaia di tele al giorno, secondo lui stesso, gli procurò un problema al nervo ottico e una temporanea cecità. Che fu attribuita a problemi psicologici . In particolar modo alla mancanza di sguardo sui grandi orizzonti. Fu così che cominciò a viaggiare. “Un pomeriggio dei primi anni settanta, a Parigi, andai a far visita a Eileem Gray, architetta e designer, che a novantatrè anni lavorava come niente fosse 14 ore al giorno. Abitava in Rue Bonaparte e nel suo salotto era appesa una carta della Patagonia. -Ho sempre desiderato andarci-, dissei. -Anch'io-, fece lei,-ci vada per me-. -Andai.-”. E fu la sua fortuna, con uno dei più bei libri di viaggi:” In Patagonia”.

Scendo in Stazione Centrale ed ho letto, rapito, un bel po' di pagine. Salgo in superficie su Piazzale Duca D'aosta, trovandomi alle spalle l'opera littoria della stazione con in cima leoni ruggenti paralizzati nel marmo. Nella mia mente ancora la scena di poco fa, mentre leggevo Chatwin:”(passando a Timbuctu) Il visitatore di passaggio si fa solo due domande: dove troverò da bere la prossima volta e perchè mai sono qui. Eppure mentre scrivo ricordo il vento del deserto che frusta le acque verdi; il cielo rivestito da una lamina di azzurro violento; le donne enormi che dondolano per la città nei boubous di cotone indaco chiaro; le imposte delle case dello stesso azzurro violento contro i muri grigio fango;gli uccelli del paradiso arancioni che tessono i loro nidi a cestello nelle acacie piumose; i lustri giardinieri neri che schizzano acqua dagli otri, amorosamente, su filari ci cipolle verdazzurre; i magri, aristocratici, tuareg, dall'aspetto soprannaturale, con scudi di pelle colorata e lance lucenti, le facce incorniciate nei veli indaco che come carta carbone tingono la pelle di un blu temporalesco; i mori selvaggi con i riccioli a cavatappo; le fanciulle dai seni sodi, fanciulle bela della vecchia casta schiava, nude fino alle vita, che pestano nei mortai segnando il tempo con un canto monotono; e le monumentali dame songhai con grandi orecchini a canestro, simili a quelli portati dalla regina di Ur più di quattromila anni fa...” e avevo alzato la testa e davanti avevo un nero del Mali in costume tradizionale che guardava il telefonino sorridendomi....come se mi stesse leggendo nel pensiero.

Due senegalesi mi si avvicinano chiedendomi se voglio qualcosa, qualsiasi cosa , dalla coca a donne , persino uomini. Imbocco via Vitruvio diretto verso corso Buenos Aires e a metà circa, una ragazza molto giovane , in calze a rete da film porno, piena di piercing, bionda, occhiali da sole, si sta specchiando in un negozietto di cannabis light.

Una volta in Corso Buenos Aires, la via dei negozi, una folla di persone mi sommerge impedendomi quasi di caracollare sul marciapiede. A metà circa del corso ,siedo su un sedile di legno che fa da corona a una pianta esotica ornamentale. Accanto a una donna peruviana con due bambine che strillano giocando con degli album da disegno. Intorno schiamazzi e traffico. Affronto un racconto di Chatwin, l'ennesimo, seduto lì: intorno un traffico pazzesco e chiasso insopportabile. Mi sono abituato da anni a leggere e scrivere in qualsiasi situazione. Il racconto dal libro in parola, Latte, narra di un americano che capita da qualche parte in Algeria e in un mezzo bordello conosce una donna bellissima ma male in arnese, Gerda, ex giornalista poi abbandonata dal suo giornale lì, licenziata. Diceva che odiava neri ed ebrei e che anche De Gaulle era ebreo e che amava solo gli arabi. In quel momento mi si siede accanto un marocchino, con i denti anneriti, fuma una sigaretta. Alzo lo sguardo sotto gli occhiali da sole a specchio e lui sgombra con tanto di scuse perchè si rende conto che mi sta infastidendo con il fumo. L'arabo rispettoso, lo battezzo all'istante. Ricorda i tanti neri africani con i denti colorati masticando noci di cola o altro. Per le strade dell'Algeria, Jeb, l'americano protagonista del racconto, beve latte da una donna nera macilenta che allatta il suo bambino. Latte di capra non sterilizzato, a rischio brucellosi. E poi ne chiede dell'altro, la donna fa sparire la moneta che le dà Jeb sotto il vestito blu cobalto. Che voglia di latte di capra. Lo trovo all'In's di solito e lo compro sempre, tutte le volte che faccio la spesa. Mai bevuto nulla di più dissetante. Mi rimetto in cammino e vicino al Mac Donad, quasi piazzale Loreto, due gay giovani si scambiano effusioni. Proseguo per la fermata della metro, dove , di lì a poco, prenderò il treno per tornare a casa....giusto il tempo per finire il libro e avere a che fare con i suoi fantasmi viventi.