giovedì 5 ottobre 2023

Il libro della pioggia, Martino Gozzi.


Il libro della pioggia, Martino Gozzi.

Il mio carissimo Gian Maria Garuti, che fra le sue tante virtù ha quella dell'essere uno scopritore di libri belli, giorni fa mi ha dato da leggere un paio di libri. Non avevo molta voglia di leggere libri che non mi ero procurato da me, ma un pò per rispetto del fiuto letterario di Gian Maria, un pò per curiosità, ho iniziato a leggere questo libro di Gozzi. L'autore , si legge nella quarta di copertina, è oggi direttore della scuola di formazione di scrittori Holden di Torino, e io, prevenuto come sono come lettore e per la mia veneranda età, ho alzato le orecchie come un cane che avesse fiutato il pericolo. Pericolo di autoreferenzialità, pericolo di testo a corredo di una carriera di docenza. Ma ho iniziato a leggerlo. Il mio coinvolgimento è stato lento. Gozzi, originario di Ferrara, narra in questo racconto autobiografico di generazione, l'autore ha superato da poco i quarant'anni, dei suoi trascorsi di traduttore e poi di scrittore non di grande successo, per le poche migliaia di copie vendute dei suoi libri ( ammesso che il successo in letteratura sia dato dal numero delle copie vendute). Sposato con Nina, una figlia, Clementina, l'io narrante autobiografico dell'autore ci trasporta in una storia personale che ha per protagonista assoluta, la morte di un amico, Stefano, un rocker emiliano, che tentava di scalare le vette di un possibile successo in campo musicale e che ad un certo punto della sua giovane esistenza viene colpito dalla leucemia. Mentre Stefano combatte il suo male, Martino (l'autore), va avanti con la sua vita. Cambia città, da Ferrara a Torino, per lavoro e si confronta con problemi di coppia e la gestione di sua figlia. Martino è ossessionato dal controllo, o meglio, dall'avere tutto sotto controllo, dalla necessità assoluta di tenere tutto insieme, sobbarcarsi i problemi di inserimento nel lavoro della sua compagna, la malattia dell'amico e soprattutto dalla necessità esistenziale di stare al mondo per aiutare e proteggere gli altri. Il racconto procede per flash back, con ricordi vividi di ore passate con Stefano a parlare di musica, di concerti storici vissuti insieme, ed altro e conversazioni con la piccola ma curiosissima figlia, Clementina. E mentre Stefano lotta contro la leucemia, Martino riceve una mail da Valeria, sorta di assistente di malati oncologici in un ospedale bolognese, il Malpighi. Gli chiede se sia possibile organizzare dei corsi di scrittura per i degenti del centro di cura. Martino non crede alle coincidenze ( e neanche io). Dopo un'iniziale perplessità, come può la scrittura curare o, addirittura, guarire dalle malattie, si chiede, infine accetta. Ed entra in un mondo di dolore ma anche di ricchezza di rapporti umani, che iniziano a scardinare questo suo celeberrimo controllo delle emozioni, questo pudore nel manifestarle, che gli deriva, tra le altre cose, da un'errata percezione della sua ammirazione per Obama, lo staff del quale aveva inventato il celeberrimo motto "No Drama. Obama" ( si cita nel racconto l'episodio in cui Obama dice ad un uomo della sua diplomazia che si era presentato non sbarbato in una insostenibile conferenza stampa di farsi la barba. Perchè anche nelle difficoltà estreme, bisogna essere professionali). Il libro va avanti per rimandi, con scene a volte commuoventi e toccanti, altre volte lasciando spazio alle idiosincrasie dell'autore, per i supermercati, ad esempio, il banco carni degli stessi in primis...e di altre sue ( e di Stefano) qualità peculiari riguardanti virtù salutiste, del non bere e non fumare, ad esempio. La scrittura è semplice, eppure intensa, genera emozioni e serenità, al tempo stesso, e una sorta di catartica accettazione del fatto che la morte fa parte della vita e che la scrittura, se non ti salva dalla morte, mentre stai morendo, è un appiglio necessario per chi sopravvive. E comunque la scrittura serve a dire quello che non riesci a dire a parole e magari chiude i conti emozionalmente con chi ti sta intorno. Per non lasciare niente in sospeso. Che pure lo stesso resta. Be' devo dire che questo è uno dei più bei libri letti di recente,( ed è un autore italiano, finalmente), leggendo il quale l'autore mi ho percepito , con la sua spietata sincerità verso se stesso e verso gli altri e la sua autenticità narrativa, sfiorata appena dalla fiction letteraria, mi ha fatto capire che la sua passione per la scrittura e la sua ossessione nel voler diventare scrittore merita di essere premiata...se non altro per questo riuscitissimo romanzo. Complimenti Martino Gozzi.



 

lunedì 25 settembre 2023

Mi raccomando tutti vestiti bene, di David Sedaris

 


Mi raccomando, tutti vestiti bene, di David Sedaris.


Libro delizioso e divertentissimo, scritto da uno dei più importanti scrittori comici contemporanei. Sedaris, americano di evidenti origini greche, divenne famoso dopo aver letto in una radio locale un racconto sulle sue vacanze di Natale tratto dal suo primo libro “Holidays on ice”. Il libro è degli anni '90 e dopo aver letto qualche straccio di questo in una radio privata che poi passò il podcast alle radio nazionali, da quel momento da scrittore scrittore ignoto fu invitato a scrivere sul New Yorker e pubblicò tutti i suoi libri. Scrittura autobiografica, la sua, di un umorismo devastante e sarcastico, trova in questo testo da poco finito di leggere un'apoteosi di risate. E non stento a credere che Sedaris riempia teatri ad libitum pieni di lettori che pagano per sentirgli leggere i suoi libri composti da racconti che diventano veri e propri monologhi umoristici. In “Mi raccomando tutti vestiti bene” Sedaris alterna racconti dell'infanzia con vicende attuali in una miscellanea di flash back che conferisce al libro la struttura di un romanzo di racconti. Tutto diviene motivo di risate, per Sedaris, dai vicini di casa che non guardano la tv , mentre sua madre e suo padre li approvano poco prima di sedersi davanti al telegiornale e guardare anche tutte le trasmissioni ad esso successive, alle vacanze in una località marina, con le sorelle che incontrano sempre per strada due ragazze, una molto in carne e l'altra magra, battezzandole immediatamente la “Chiatta sul tetto che scotta” e “Salta marea”, sua sorella Lisa che dopo aver sentito parlare di un film sulla vita dello scrittore cubano Reinaldo Arenas si rifiuta di vederlo perchè gli era stato riferito che all'inizio del film si vede un cane che muore e di fronte al racconto del film di suo fratello (Sedaris medesimo) che gli dice che il protagonista muore di Aids in un ospedale di Miami non riesce a dire altro che, povero cane, hanno avuto persino il coraggio di filmare la sua morte, a suo padre, capostipite Greco che si avventura in una storia di speculazioni immobiliari finita in un disastro a causa di un inquilino che trova mille scuse per non pagare l'affitto, incluso la pretesa di tagliare un albero a fianco al suo appartamento nel giardino perchè pieno di uccelli che cantando disturbano il sonno di suo figlio, dalla figlia meno che adolescente di una vicina di casa barista di notte che lo perseguita rubandogli oggetti di ogni tipo in casa ( è costretto a cambiare casa), al fidanzato Hugh che una volta gli lancia contro un bicchiere e mentre lui finge d svenire corre a prendere paletta e scopa per sgombrare i cocci, proseguendo con le scuse inventate mentre svolge lavori di pulizia in appartamenti ( uno dei mille lavori intrapresi per sbarcare il lunario in attesa di capire cosa si vuol fare della propria vita) mentre finisce per incendiare le tende o rompere oggetti fragili di valore (“ al proprietario diciamogli che è entrato uno scoiattolo in casa”, dice a qualche suo socio di lavoro) e sua madre, capace di dormire ovunque e vestita in tutti i modi, meno che con un classico tradizionale pigiama, che non s'accorge nemmeno dell'allusività dei figli quando gliene regalano uno, e che dire del fratello Paul che si sposa con una parrucchiera facendo celebrare il suo matrimonio da una medium che alla fine della cerimonia finisce col dire impunemente, si sono sposati, l'avevo previsto...e molte altre vicende raccontate in modo esilarante. In un'intervista, in una delle sue non rarissime apparizioni in Italia, quando gli hanno chiesto quali fossero gli scrittori italiani conosciuti in America, disse , si , certo, Bruno Vespa. Per poi aggiungere, scherzo, non è vero; e quando gli hanno chiesto cosa gli desse maggiormente fastidio la sua risposta ha lasciato tutti con le lacrime agli occhi per le risate:” non mi offende chi odia i gay, non me ne importa niente , sono stato in Francia e ogni giorno qualcuno parlava male degli americani e non me n'è importato niente, non mi offende chi insulta mia sorella, perchè di lei non mi importa niente, l'unica cosa che veramente mi offende è vedere degli animali con gli occhiali da sole, non per gli animali, di cui non mi importa niente, ma solo se portano gli occhiali da sole”. Che posso aggiungere, se siete un po' giù, la vita vi gira male, siete in un periodo no, leggete un po' di Sedaris, funziona meglio di un ansiolitico e non ha effetti collaterali.








domenica 24 settembre 2023

Donne d'Albania, Isabella Lorusso.

 



Donne d'Albania, di Isabella Lorusso , ed. Sensibili alle Foglie. 

Ho letto questo bellissimo, drammatico e interessantissimo testo di Isabella Lorusso e ne traccio qui una breve e accorata recensione. Si tratta di un libro di interviste che Isabella Lorusso ha realizzato in un certo lasso di tempo ad alcune donne vissute durante il terribile periodo della dittatura pseudocomunista in Albania posta in essere dal dittatore staliniano Enver Hoxha. Un lavoro antropologico, sociologico, ma anche politico. Il punto di vista femminile, giammai femminista, raccolto in interviste a volte dal vivo, in altri casi su Skype, con l'ausilio di un traduttore e molto spesso senza questo aiuto, dato che moltissimi albanesi parlano molte lingue, oltre alla loro,  e l'italiano è fra queste. Le interviste sono dei veri e propri racconti di vita di poetesse, scrittrici, ma anche avvocatesse, giudici, persone comuni, che hanno vissuto in Albania durante l'era del dittatore Hoxha e cioè dal 1944 fino all''85, anno in cui egli morì. Le voci di queste donne molte delle quali perseguitate da un regime dispotico che ad un certo punto si chiuse persino nei confronti degli altri paesi comunisti, sempre per volere di Hoxha, raccontano di un paese asfissiante, nel quale la metà della popolazione era costituita da spie di regime (la famigerata Segurimi) ricattate con metodi inumani ( si racconta persino di parenti che denunciavano altri parenti, pur di sopravvivere), pieno di orribili campi di lavoro, di oppositori al regime, spesso provenienti dallo stesso Partito del Lavoro d'Albania, molto spesso, rei solo di aver messo in discussione le politiche del dittatore, o rei soltanto della propria intelligenza e autonomia di pensiero, uccisi, torturati o messi in condizioni di non nuocere con continui spostamenti sul territorio e privati di ranghi precedenti e dignità ad un semplice battito di ciglia di Enver Hoxha, che non poteva tollerare critiche di alcun tipo al proprio operato, specialmente se portate da persone intelligenti e colte. E sullo sfondo della dittatura, che per ideologia, portò comunque molte donne ad elevarsi socialmente consentendo loro di rivestire prestigiosi incarichi pubblici che in quell'epoca in occidente ci si sarebbe sognati, il maschilismo, il patriarcato, il retaggio tribale costituito da leggi del taglione e primitivismi vari, che aggiungevano  persecuzione sessuale a persecuzione ideologica. Un lavoro interessantissimo, completo, in cui le voci narranti, appena interrotte dalle domande di Isabella Lorusso, raccontano anche del razzismo subito una volta che queste donne sono riuscite a fuggire dal quel regime dispotico, in Italia ( con qualche eccezione, s'intende) o altrove,  spesso vendute come schiave sessuali, via via lungo la storia di questo paese, con il racconto di carrette del mare rugginose colme di montagne di corpi dirette a Brindisi, in fuga dal paese Albania... e il cambiamento, alla dipartita del dittatore, con una spietata guerra civile dove si ammazzava senza nessun motivo o ritegno, e l'avvento della crisi finanziaria che ha mandato in bancarotta un paese che usciva da una dittatura secolare e assolutamente impreparato alle astuzie malefiche di un improvviso capitalismo senza regole, attraverso il famoso sistema delle Piramidi Finanziarie che ha ulteriormente impoverito questo bellissimo paese montano di mare. Sino alla consapevolezza amara, che dopo la caduta del regime, molti dei vecchi dirigenti sono rimasti in sella, al potere, riciclati ( destino di tutte le dittature che cadono nominalmente) e si preparano a vendere la propria terra ai migliori offerenti, in cambio di soldi e potere e niente per il popolo. E a restare in sella per sempre, fedeli alle vecchie tradizioni patriarcali all'interno delle quali le donne non devono contare niente...che persino sotto Enver Hoxha, ripeto, per spinta ideologica, addirittura, non accadeva. Nell'insieme il lavoro costituisce una ricerca sul campo di livello universitario, ma agile da leggere anche da chi volesse capire meglio, non solo la storia dell'Albania, ma questa stessa come archetipo per capire la storia dell'oppressione femminile nelle società patriarcali. A me personalmente non meraviglia affatto che questo libro sia stato scritto da una militante di sinistra, anzi  trovo che sia doveroso far luce su anni in cui , accecati dall'ideologia, si prendevano lucciole per lanterne e si ascoltava Radio Tirana come fosse il verbo del comunismo internazionale. E' la migliore risposta all'abbaglio collettivo di quegli anni e la miglior proposta per  una sinistra futura, più libertaria, più democratica e soprattutto aperta finalmente alle donne, ma non nominalmente, in concreto, abbracciando finalmente il loro punto di vista, nella politica e soprattutto, nella società. Concludo dicendo che sono meravigliato  e dispiaciuto del fatto che questo testo non sia stato presentato all'interno di importanti rassegne letterarie, come ad esempio, in “Un'emozione chiamata libro....”

martedì 12 settembre 2023

Boliviana

 


Boliviana


Eravamo seduti vicino ad un camioncino ambulante dei panini. In quel momento il camioncino era fermo e mi chiesi perchè avrei dovuto chiamarlo ambulante. Poi presi la definizione si stronzo e aggiunsi ambulante. Questo quadrava, Uno stronzo ambulante era uno stronzo dappertutto. Mi appuntai questa cosa nel mio dizionario mentale degli insulti. Eravamo seduti, io e Synthia, ad un tavolino e aspettavamo di ricevere dei panini che avevamo ordinato. La cuoca del camioncino ambulante fermo era marocchina. Faceva anche polpette, cus cus...Pensai a com'era vicino l'arabo al mio dialetto d'origine. Cus cus era quando noi volevamo dire di qualcuno che eravamo certi che fosse lui. Cus in dialetto era “questo”. Questo questo, sarebbe suonato.Ed era quasi sempre legato ad un indizio di colpevolezza di qualcosa. Synthia stava ordinando il secondo panino e questo era un indizio che riguardava la lentezza del mio pensiero. E l'appetito di Synthia. Nel frattempo lei aveva attaccato bottone con una tizia seduta ad un altro tavolino di fronte a noi, con due ragazzini , un maschio e una femmina, rapiti dai loro telefonini. Era una boliviana, scura di carnagione, tratti indigeni, vestita con pantacollant neri attillati. Rossetto vistoso. Era vistosa. Era bona. Non lo detti a vedere a Synthia. La latine sono così: diventi loro proprietà. Anche gli sguardi che lanci alle altre devono avere il loro imprimatur. Ma se il soggetto osservato è esteticamente interessante l'imprimatur viene ritirato con una bolla di esecrazione costituita da uno sguardo che assomiglia molto a quello dell'uomo torcia dei Fantastici Quattro prima di sparare fuoco con gli occhi.

La boliviana ci raccontò la sua storia in spagnolo. Io capisco lo spagnolo, non lo parlo bene, ma lo capisco. Un po' come i cani, non parlano la tua lingua ma capiscono quando stai per bastonarli. Era venuta in Italia, a Milano, con i suoi figli, per visitare la città. Si era fatta ospitare da una sua amica peruviana sposata con un italiano. Al termine dell'ospitata la sua amica le aveva chiesto 600 euro. Per l'ospitalità. Alla faccia dell'ospitalità, dissi io. Ah, particolare curioso, la boliviana abitava in Germania, non era venuta in Italia, a Milano, dalla Bolivia e questo sì, particolare ancora più curioso, si era portata con sé, viaggiando in autobus, una tv al plasma! Una tv al plasma? Chiesi io a quel punto della conversazione, mentre la marocchina, alta due metri con in fianco il marito alto un metro e mezzo mi serviva delle polpette non richieste. Sì, disse lei, io adoro la tv al plasma. Synthia mi osservò come se avessi fatto una domanda inopportuna. Tutto il mondo viaggiava e per di più in autobus, con una tv al plasma al seguito!

La boliviana andò avanti con il racconto ...se avessi dovuto pagare quella cifra me ne sarei andata in albergo, per sei giorni! E ora stava lì seduta dalle 10 di mattina, al momento di questa conversazione, ore 19,30 circa, in attesa di ripartire per la Germania via Francia. Ed era senza bagagli. La sua amica peruviana e suo marito italiano avevano pensato bene di trattenere le sue 6 valigie a titolo di risarcimento per il mancato pagamento dei 600 euro per sei giorni. Io non riuscivo a credere alle mie orecchie. Le chiesi se forse non era il caso di andare dalla polizia e lei ci raccontò un'altra storia incredibile. Aveva chiesto ad uno per strada dove fosse il comando di polizia più vicino. E il tizio , uno di mezz'età, per tutta risposta le aveva detto che egli stesso era un poliziotto e che doveva consegnargli il suo passaporto. In cambio la boliviana avrebbe dovuto pagare una non meglio precisata tassa di passaggio. Al che lei aveva preteso che lui le mostrasse un tesserino identificativo. E lui per tutta risposta le aveva detto che non ce n'era bisogno, perchè il poliziotto era lui ed era lui che chiedeva i documenti alla gente. A quel punto lei gli aveva detto che senza distintivo non avrebbe mostrato alcun passaporto. E alla fine vedendo che lui nicchiava se n'era andata e sembra non ci fossero state altre conseguenze. Ovviamente a quel punto di andare alla polizia le era passata la voglia. Così aveva deciso di comprarsi un biglietto dell'autobus per tornarsene in Germania. Aveva chiesto ad un tizio che pareva un conducente di autobus lì nei pressi. Eravamo alla fermata della metropolitana milanese, Lampugnano, che era proprio alle spalle della boliviana e di fronte al camioncino ambulante della coppia di marocchini articolo “il”. Ed anche io e Synthia eravamo lì per prendere un autobus che ci avrebbe dovuto portare in Puglia. Ma per la nostra partenza c'era ancora tempo. Mentre la boliviana continuava a raccontare. Insomma l'autista ha chiamato al telefono un altro personaggio. Poco dopo questo è arrivato. Ha detto che l'accompagnava a fare il biglietto e che lei, la boliviana, non avrebbe dovuto fare altro che dargli i soldi: 400 euro. 400 euro? Dissi io. 400 euro? Disse Synthia. Il panino è otto euro, disse allora, la marocchina bimetre. Di dove sei, aveva chiesto la boliviana all'uomo che doveva farle il biglietto, non sembri italiano. E lui le aveva risposto che era romano. Ma sia a Synthia che a me apparve chiaro che si trattava di un romeno. Lei prima di rispondere aveva fatto in tempo a dare un occhiata ai prezzi degli autobus per la Germania. Al massimo costavano sui 200 euro. Io e Synthia ci guardammo. Be', dissi io, che ne dici, feci rivolto alla boliviana, se scriviamo un reportage sull'accoglienza turistica in Italia? Nessuno rise. Facevo sempre battute troppo sofisticate e nessuno rideva mai. A parte io. Decisi che io ero il miglior pubblico per le mie battute esistente al mondo. Poi la boliviana ricevette una telefonata. Era il marito italiano della sua “amica” peruviana. Ti sto portando le valigie, udimmo dire distintamente dal viva voce del suo telefonino. Sono 150 euro, aggiunse il Babbo Natale italiano. Io detti un morso al mio panino. Synthia non si teneva più. La mia battuta di prima non sembrava più nemmeno sarcasmo. Poi non successe più molto. Nell'attesa del nostro autobus e del marito trasporta valigie attaccammo bottone con una coppia che era lì. Lui era napoletano e lei comasca. Lei era incinta e aveva in braccio un bambino piccolo e intorno altri tre figlioletti che ballonzolavano per i tavolini. Siamo venuti qui da Como a farci due passi, disse il napoletano. Quattro figli, dissi io, complimenti, alziamo la media italiana! Ce ne sono altri 4 a casa ad aspettarci, disse lui con un certo orgoglio. C'ho il cazzo grosso, che ci posso fare, aggiunse. Comprare i preservativi, fu la mia risposta.

Non so come sia finita fra il trasporta valigie e la boliviana e i suoi ragazzini avuti da un uomo marocchino che poi non ne aveva più voluto saper niente, le stavano finendo le batterie dei telefonini suo e dei figli. Nè del napoletano con la comasca. Spero solo che quando il medico, le aveva detto a lei, che era il caso che ricorressero al lattice, non abbia frainteso e non abbia chiesto magari al marito un bel materasso di quel materiale....







































domenica 27 agosto 2023

La Navi, di Antonio Lobo Antunes


 


Le Navi, di Antonio Lobo Antunes.


Lobo Antunes è uno scrittore portoghese molto particolare. Nato a Lisbona, nel quartiere Benfica, che ha dato il nome ad una delle squadre di calcio più importanti del Portogallo, e di cui Lobo Antunes, non a caso è tifoso, ha studiato da psichiatra ed ha partecipato alla guerra coloniale negli anni '70 in Angola, ex colonia portoghese africana. Esperienza, quest'ultima che lo ha segnato indelebilmente tanto che gli echi di quella guerra accompagnano moltissime delle sue narrazioni. Una guerra , quella coloniale del Portogallo contro i ribelli dell'Angola che ha consolidato in lui alcune delle idee che spesso espone nelle sue rare interviste: il regime salazarista dittatoriale che si riempiva la bocca di patria e nazione e paese, lo faceva in modo oltremodo retorico e falso, e abbandonò di fatto le truppe coloniali ad affrontare una guerra sporca e orribile le cui memorie in Lobo Antunes, tracciano nostalgici ricordi per i suoi compagni d'armi che spesso cita come coraggiosi, preparati militarmente e con i quali, ancora oggi, con i sopravvissuti di essi, periodicamente si incontra per delle reunion gravide di rimembranze e affetto reciproco. In questo libro, Le Navi, con la sua scrittura concentrica, per immagini, metaforica, spesso barocca, ma scorrevole nella sua partitura addirittura musicale, racconta il dramma dei coloni portoghesi che ritornarono in patria, a guerra finita e colonie perse, trovando un Portogallo povero, miserabile, terra di iene e sciacalli umani, trasformato da una guerra dispendiosa in una terra di reazioni avverse, spesso eccessive, come quasi sempre accade quando dopo anni di potere di una dittatura le forze contrarie prendono il potere scatenando vendette...una terra in cui la rivoluzione socialista diviene terreno di vendette personali, sotto le bandiere di un socialismo espropriativo di facciata. I vari personaggi sono descritti nei loro percorsi di sopravvivenza ai cambiamenti, spesso dopo trent'anni di vita in Africa, Mozambico, Angola, Guinea Bisseau o a Macao, colonia portoghese in Asia. Dall'uomo che sbarca a Lisbona con la bara del padre morto e non ha i soldi per seppellirlo finendo per venderlo come concime per piante medicinali di un tizio che le coltiva in casa e la sua casa è una foresta, in piena Lisbona, a chi torna a casa e la trova occupata da altri in nome di una rivoluzione socialista di cui a costoro non importa se non nella misura dell'avergli procurato una dimora, e c'è un uomo che vende la propria donna, mulatta, per ricavarne un biglietto per il traghetto diretto a Lisbona, ad un vecchio di ottant'anni affetto da paludismo e una volta ripensato all'iniquo scambio la sua donna si è ormai affezionata al vecchio,e poi ancora c'è chi arriva a Lisbona con la moglie mulatta ed un figlio e non può pagarsi l'albergo , così cede la moglie all'albergatore , e poi c'è chi trova una prostituta olandese e se ne innamora e proprio lì sul molo per partire per chissà dove con lei, mentre cerca di convincere un prete a sposarli, guarda la donna allontanarsi con un marinaio belga largo di spalle come un armadio e impazzirà per ricercarla in tutta Lisbona. Una Lisbona descritta quasi in modo fantasmatico e metafisico, con i suoi luoghi tipici pieni di umanità piangente, risate alcoliche, spacciatori di droga, albergatori imbroglioni, prostitute multietniche, eppure avvolta nel suo fascino decadente e imperiale, di un impero oramai inesistente. Un libro affascinante, la cui bellezza malinconica sta nei gorgheggi bizantini di Lobo Antunes , che non disturbano questa meravigliosa sensazione che comunque vadano le cose, pur nelle difficoltà estreme, la vita va avanti e cambia sotto gli occhi magici, spietati, sghignazzanti e sorridenti, della capitale lusitana, una città di disperati che non sanno dove altro andare, perchè per loro tornare a Lisbona è stato come ritrovare una madre vecchia e paralitica, che è capace ancora di posargli una mano sulla spalla, trasmettendo tutto il calore possibile che una madre può dare ad un figlio. Questo libro mi ha insegnato che cosa vuol dire scrivere, perchè sicuramente Lobo Antunes, ci avrà messo tanto a scriverlo. Mi sembra di vederlo piegato sulla sua scrivania in rua Conde Redondo, a Lisbona, dieci ore al giorno, fumando sigarette una via l'altra,nonostante abbia vinto un cancro ai polmoni, a correggere , correggere, correggere, finchè il libro non accetta più correzioni...ed è allora che è finito un libro, come ama sempre dire. Mi sembra di sentirlo, se gli chiedi che scrittori gli piacciono e lui dice: Tolstoj, Conrad...hanno scritto i loro libri con la fatica di minatori e ci hanno messo molto tempo, perchè la scrittura è fatica e il lettore non riesce ad immaginare la fatica che c'è dietro un libro. Il successo non ha niente a che fare con lo scrivere, con la letteratura. Be', scusate se è poco, unire il successo alla buona scrittura, di questi tempi, non mi pare poco. Consigliatissimo specie ai lettori che non riescono più a sentire la musica nei libri degli scrittori contemporanei.





giovedì 17 agosto 2023

Diario estemporaneo


 

Diario irregolare.


Non tengo un diario quotidianamente. Diario è tutto quello che scrivo, libri, pezzi, tutto quello che faccio, vignette, video di sit down comedy. Sit down comedy l'ho inventato per parafrasare il più celeberrimo stand up comedy, capite bene che si può stare anche seduti a cercare di dire cose che fanno ridere e riflettere, leggendole. Un po' Morettiana come cosa, ma ciascuno fa quello che può, in attesa di diventare un attore scespiriano. E in fondo la vita che cos'è se non un'attesa. Quando sei arrivato non hai più nulla da chiederle.


Osho Rajneesh diceva di non credere in Dio perchè in quanto essere perfetto aveva terminato la sua spinta a crescere. Non è male come concetto, perlomeno è più sincero dei cosiddetti atei per contrasto. Gente che in fondo ci crede ma fa finta di essere atea dichiarandolo coram populo mentre stringe il crocifisso in una mano e la mano nella tasca.


Con buona pace dei puri di spirito, delle anime belle che non si sporcano mai le mani e che sempre sono nel giusto, dopo quasi un anno di guerra, a me appare chiaro lampante palmare che questo conflitto sia nato per indebolire economicamente Russia ed Europa e  che chi trae giovamento dal conflitto sia l'Amministrazione americana ( il popolo non lo dirò mai). Lo diceva Lenin, sempre, guarda a chi giova e troverai il vero colpevole!Ci stanno affossando economicamente rendendoci quantomai dipendenti. E questo per un debito di riconoscenza di 70 anni fa?


In Venezuela fanno il pieno di benzina con 50 centesimi. Noi cammineremo con la benzina a 10 euro al litro. In attesa della beneamata auto elettrica, che, diciamola tutta, non risolverà il problema ambientale, se ad usarla saranno milioni di persone. Il problema ambientale consiste nel fatto che per andare dal salotto al bagno sentiamo l'esigenza di prendere la macchina. Di questo passo la prenderemo, oh, sì, quella per l'elettrocardiogramma!


D'altra parte per Putin non si può minimamente simpatizzare, pregno com'è di un'ideologia da uomo delle caverne. Ha paura dei transgender eppure non capisce che è lui il primo transgender della storia: ha il cazzo nelle gambe e la figa in testa! Più transgender di così...Ma a parte gli scherzi quando , l'uomo, imparerà ad aver rispetto per le persone non convenzionali? Quando avrà capito che non serve lenire le proprie frustrazioni , anche sessuali, perchè no, con un supposto senso di superiorità verso le persone non convenzionali? L' organo sessuale più potente è il cervello. E infatti a dare un'occhiata a Rocco Siffredi si capisce enormemente.


Il pensiero del giorno viene da Diogene: guarda quanto sono fortunato, diceva attraversando il mercato, guarda quante cose di cui non ho bisogno. E questo è collegato al discorso del consumismo sfrenato: avete mai fatto un trasloco? Io sì, diversi...avevo 72 paia di forbici che nemmeno sapevo di avere. Perchè comprare serve a riempirci del vuoto di cui siamo pieni...peccato che non siamo buddhisti. Per loro il vuoto è il punto massimo d'arrivo. Pensa che differenza.






































domenica 18 giugno 2023

Il sol dell'avvenire, di Nanni Moretti

 


Il sol dell'avvenire, di Nanni Moretti.


Dunque, trovate un paio d'ore libere, al Cinema Centrale, in via Torino a Milano, sono riuscito a vedere l'ultimo film di Nanni Moretti. Devo dire che sono entrato un po' prevenuto, perchè le ultime prove di Moretti, il Moretti de “La Stanza del figlio” e “Tre piani”, non mi avevano convinto pienamente. Forse perchè ero abituato al Moretti autobiografico di “Caro Diario” e “Palombella Rossa”, ero abituato al Moretti che, piacesse o meno, metteva in scena il suo sguardo sulla vita, sulla società, persino sulla storia, dal punto di vista di un intellettuale militante del Partito Comunista Italiano . Dato che la mia famiglia viene da quel milieu, un ambiente sociologico base di un partito che ha rappresentato un' affascinante utopia nel panorama dei partiti comunisti del mondo occidentale, capace di produrre quadri dirigenti intelligenti e colti e preparati, che hanno avuto la forza ed il coraggio di tagliare il cordone ombellicale con l'Unione Sovietica, capace di rompere con l'idea che il riferimento del comunismo mondiale dovesse essere quello sovietico, scegliendo una via riformista e originale che, sotto la guida sapiente di Enrico Berlinguer, fatto unico, questo, divenne il più votato partito comunista in occidente ed il primo partito in Italia, all'inizio degli anni '80. Tanto da costringere Aldo Moro a prendere atto di questa forza ed a cercare di coinvolgerlo nella gestione e nel governo del paese. Ma veniamo al film. Giovanni, il semiautobiografico protagonista del film , si prepara a girare un film sulla rivolta in Ungheria, nel '56, quando il popolo ungherese insorse contro il governo filosovietico e i comunisti sovietici invasero il paese nel tentativo, purtroppo riuscito, sanguinoso, molto sanguinoso, di ristabilire l'ordine. Protagonista del film di Giovanni , il regista, è un redattore dell'Unità, organo storico del Pci, interpretato dal bravissimo Silvio Orlando e la sua compagna, militante del partito da tempo immemore, interpretata dalla fantastica Barbora Bobulova. Il redattore comunista riesce ad invitare nel quartiere dove è anche segretario di sezione, un circo Ungherese. Durante lo svolgimento degli spettacoli circensi, la tv trasmette le drammatiche immagini della rivolta in Ungheria e i componenti del circo si schierano con i ribelli ungheresi. Questo fatto pone la moglie del redattore in contrasto con lui, dal momento che gli ideali dei comunisti italiani sono democratici e ben lontani dall'ortodossia sovietica. La sua compagna, quindi, lo spinge a prendere posizione contro il partito. Il film prosegue con il racconto delle vicende biografiche del regista che mentre gira il film si trova alle prese con una crisi matrimoniale. Sua moglie, interpretata dall'ottima Margherita Buy, che è anche sua produttrice, ritiene che lui sia un uomo troppo rigido, troppo impegnativo, troppo autoreferenziale e va da uno psicanalista perchè lo aiuti ad avere il coraggio di lasciare il marito. Qui entrano in scena tutte le idiosincrasie e le ossessioni di Moretti , per i sabot da donna , per esempio, che detesta, perchè il piede della donna se è coperto davanti deve esserlo anche da dietro, la fissa per identificare quartieri romani come scenari ideali per riprodurre la Budapest del '56, segue la moglie che sta producendo il film di un regista giovane di quelli in voga che girano film violenti e ferma una scena , davanti ai finanziatori coreani del film, che doveva prevedere un omicidio, come scena finale, con un colpo di pistola sparato in fronte ad uno dei personaggi. Cita “Breve Film sull'Uccidere” di Kieslowski in cui avviene l'omicidio di un taxista con modalità lunghe e truculente, tali da indurre lo spettatore ad abbandonare per sempre l'idea della violenza, per contro alle facili esecuzioni con pistole automatiche che non fanno altro che esaltare l'amore reale per la violenza dei registi della nouvelle vague del cinema contemporaneo. Scena lunga, intensa , esilarante a tratti, ma che fa riflettere e illustra la posizione di Moretti e la sua idea sulla violenza nel cinema. Ad un certo punto Pierre, un francese che doveva finanziare le riprese del suo film viene arrestato per bancarotta. Il film sulla rivolta d'Ungheria del '56 con le ripercussioni sui comunisti italiani, mostrate nella dinamica di coppia Orlando-Bobulova, rischia così di non essere concluso. La crisi di Giovanni con la moglie nel frattempo si aggrava e lei va a vivere da sola. Ma i due continuano a frequentarsi, perchè lei lo vuole aiutare a concludere il film, nonostante tutto. La scena del dialogo fra i produttori di Netflix, giovani rampanti che parlano quel gergo contemporaneo mix di italiano tecnico e inglese americanizzato e Giovanni, mentre cercano di dirgli che sono disposti a finanziare il suo film con delle modifiche che introducano, per esempio, un momento “what the fuck”, mi ha fatto quasi cadere dalla poltrona in una saletta del cinema completamente vuota, eccetto che per una signora in là con gli anni che a fine film ha detto che si sentiva in stato confusionale, è paradigmatica di quanto alla fine certe idiosincrasie accomunino Moretti con persone come me, per esempio. Non certo per questioni ideologiche ma per decenza linguistica. E questo a prescindere dallo schieramento politico di appartenenza. L'ipotesi Netflix, quindi, tramonta e Moretti si trova a fronteggiare una nuova situazione tragicomica, che vede la sua giovanissima figlia, esecutrice , tra l'altro, delle musiche del suo film, fidanzarsi con un console polacco sessantenne che di nome fa Jerzy. Nonostante tutto sembri andare per le terre, la moglie di Giovanni convince i coreani a finanziare il suo film. Un film che doveva avere un finale drammatico ma che Giovanni cambia in corso d'opera con un capolavoro di contenuti e immagini a dir poco commuovente. Che ha il potere di riconciliare Giovanni e Moretti, con la storia, con il mondo e con tutte le sue inaspettate variabili. Ripeto, un Moretti ai massimi livelli, comico, polemico, satirico, autoironico, in un film dove le risate incontrano le lacrime di commozione con una scena finale catartica. Assolutamente da vedere.




giovedì 8 giugno 2023

Bari parte 4, Basilica di San Nicola, conclusione

 Bari (parte 5). La basilica di San Nicola, conclusione.


Ritrovatomi nello spiazzo antistante la basilica di San Nicola,mi trovo di fronte all'imponente facciata di questa bellissima chiesa visitata molto spesso in passato dai russi, soprattutto per le sue ascendenze ortodosse. Entro nella chiesa e all'interno dell'enorme costruzione ammiro pareti e colonne in stile quasi catacombale, e , per contrasto, il soffitto , decorato di immagini sacre bordate di oro. In questo momento è in corso un matrimonio. Mi trovo proprio nel momento del fatidico sì. Così, Fabio e Iolanda, si sposano sotto gli occhi tripudianti dei parenti e dopo aver fatto la promessa al parroco che li sposa, che, d'ora in poi, andranno a messa ogni domenica. Come riferisce il don...non si sa mai che andando di giovedì, oltre che di domenica, compiano peccato d'eccesso di fede da ostentare...


Al ritorno rifaccio lo stesso percorso, diretto alla stazione ferroviaria. In via Sparano, un tempo si sarebbe ironizzato cambiandole l'accento in Spàrano, riferito alle guerre criminali, ora sembra lontano ricordo, ripasso trovandomi sulla destra la chiesa di San Ferdinando. Fuori c'è un carro funebre. Appoggiati all'auto funeraria, due uomini in completo blu, elegantissimi, sono a contatto col mezzo , piuttosto  svaccati. Sbadigliano della grossa, come questi gesti facessero parte della loro normale routine quotidiana. 


In piazza Umberto mi siedo su una panchina. Dal mio marsupio tiro fuori il pacchetto di toscanelli. Ne prendo uno e lo accendo. Come Pepe Carvalho, il detective di uno dei miei giallisti preferiti, don Manuel Vasquez Montalban. Una coppia di giovani nigeriani, lui più basso di lei, passeggino con bambino annesso si fermano sulla panchina di fronte. Il bambino poco dopo sgambetta verso i vicini scivoli e giochi per bambini. In mezzo a noi un'aiuola con una siepe circolare e al centro una palma filiforme e alta. La nera si avvicina ancheggiando in modo per lei naturale. Ha i capelli raccolti a ufo in un cappellino di lana, jeans e maniche corte.

“Scusa, hai un accendino, per favore?”, mi chiede.

“Certo”, dico.

Glielo do. Lei si accende una sigaretta handmade e mi restituisce l'accendino.

“Sei di Bari?”, mi chiede mentre si allontana.

“No”, rispondo.

“Lo sapevo che non eri di Bari, perchè qui la gente è troppo ignorante”, fa.

Poi mentre fuma rilassata, si dirige verso i giochi, a controllare il suo bambino. Il marito o uomo, fate vobis, resta seduto sulla panchina, stanco, forse reduce da qualche cantiere edile della mattina. Manca poco alla ripartenza per Ostuni, ore 18,30, ed ho il treno alle 19,02. Mentre fumo in santa pace il mio toscanello, sulla panchina alla mia destra si siede un arabo. Mi guarda con circospezione. Ho un viso sconosciuto, occhiali da sole a specchio. Dopo un po' giudica che se ne deve fregare. Si prepara una canna di hashish con dovizia. Per base usa il tabacco di una sigaretta sventrata. Poi gli si avvicina un altro arabo. Si salutano come noi del sud del mondo, mano e baci sulla guancia. Si passano il joint. Alle loro spalle una pattuglia della Finanza chiacchiera, sul ciglio della strada trafficata, di chissà che cosa. Il traffico scorre incessante. Come la vita. Come la morte. Come i matrimoni e i funerali. E i miei pensieri sono fiumi in piena. Pellicole di un documentario su una città che è cambiata, restando, tuttavia, fedele a se stessa.

sabato 3 giugno 2023

Bari (parte tre), Via Sparano, Bari vecchia.

 


Bari ( parte 4) Via Sparano e Bari vecchia.


Continuo a camminare imboccando via Sparano, la via dei negozi delle catene multinazionali. Giovani ragazze in pantaloncini attillati e magliettine corte a lasciar capolinare ombelichi, giovani skaters obesi dopati di MacDonald, due nere nigeriane enormi che ricordano le matrone simboli di fertilità e costrette ad ingrassare per questo, come si incontrano in certi racconti africani di Chatwin, nigeriani magri con magliette colorate e dreadlocks tipo giamaicani. Sui lati della strada un negozio United Colours Of Benetton, di fronte al quale spuntano sedili tondeggianti a forma d basamenti di colonne marmoree mozzate alla base. Poi Swatch, Stroili, Kiko, Tezenis e una serie infinita di negozi grandi firme multinazionali della moda di massa...La strada è un ammattonato grigio-una volta c'erano alberi di palme, trent'anni fa-; a destra svolto per via Abate Gimma e, in fondo in lontananza, si staglia la facciata del teatro Petruzzelli restaurato dopo un incendio di parecchio tempo fa. Vado in direzione del Petruzzelli e poco dopo sbuco in corso Cavour, la strada dei negozi commerciali locali. Prendo a sinistra e attraverso la strada, dirigendomi verso il mare, ammirando il bellissimo teatro Margherita, posto proprio sulle acque marine, un tempo retto da palafitte. Se ne sta seduto sul porticciolo dei pescatori baresi. Mi avvicino al Giardino Fabrizio De Andrè, anch'esso con alcune palme alte e filiformi che ricordano le sagome delle nere africane disegnate stilizzate su batik, ritratte con fardelli in testa e , giusto sulla sinistra, osservo una tettoia che di solito ospita il pescato appena portato in mattinata pronto per essere venduto, ma poiché siamo nel pomeriggio inoltrato, è ora vuoto. In cima alla tettoia, all'inizio della stessa, campeggia una scritta a caratteri corsivi che recita così: “San Nicola proteggici da le rizz vacand”. Sorrido quando la leggo e mi viene in mente che questa scritta è il messaggio scritto nel fumetto del cartoon di questa città e ne rappresenta in pieno lo spirito estrememente ironico e spietatamente autoironico. A destra do uno sguardo al lungomare Imperatore Augusto, che costeggia il mare e mostra i muscoli cementizi di enormi palazzi residenziali, sedi di uffici, condomini di lusso e alberghi. Ma non lo percorrerò, per oggi. Non ho abbastanza tempo, ho un treno da prendere per il ritorno ad Ostuni. Mi infilo, quindi, fra il teatro Margherita e l'ex mercato del pesce, sbucando in piazza del Ferrarese, dove, sulla facciata di un edificio d'epoca, sulla destra, proprio in cima, mentre cammino, mi cade lo sguardo su un orologio enorme, le cui lancette sono ferne sulle 9. Se non ricordo male l'edificio si chiama Palazzo del Sedile e fu sede di consigli comunali ante litteram già nella prima metà del '500. Mi muovo sulla piazza, in mezzo, al centro storico murattiano e intorno ci sono pizzerie e ristoranti, sempre aperti e a sinistra del palazzo del sedile, noto Lo Spazio Murat, edificio che ospita mostre di ogni genere. Passo lasciandomi a destra Matiti, un ristorante che si definisce Bistrot della Pasta. In mezzo ai tavolini protetti da una tettoia, davanti all'ingresso, mi sorride, zigzagando tra i tavoli una cameriera filippina. Mi insinuo tra i vicoli del quartiere murattiano ( da Gioacchino Murat, generale napoleonico, che quando governò queste terre vi lasciò pure un segno indelebile del suo passaggio, se non altro nel dialetto francesizzato). Ad un tratto mi volto a destra e noto un cartello enorme vergato da un enorme scritta a mano che informa: “Panzerotti 2 euro”. Continuo a camminare, tra queste strade di Bari vecchia, e l'ammattonato si è fatto chiaro, color pietra, quasi marmo e passo sotto un ponte che si apre come il boccaporto di un antico galeone da cui potrebbe uscire la bocca di un cannone e per un pezzo esco sul lungomare. Sono diretto verso la basilica di San Nicola. A destra scorgo la muraglia di Bari Vecchia e dietro la muraglia, lassù in alto rispetto alla mia posizione sul marciapiedi del lungomare, un vecchio balcone di una vecchia abitazione mostra garrulo al vento uno striscione sul quale con lettere gotiche c'è scritto: “ QUI NESSUNO E' STRANIERO”. Giro a sinistra, il mare alla mia destra, e ripasso sotto la muraglia, nel mio percorso a serpente, sotto un altro ampio arco, ritrovandomi quasi subito nello spazio antistante la basilica di San Nicola.


Continua...

venerdì 2 giugno 2023

Bari (parte tre) La Feltrinelli.

 


Bari ( terza parte) La Feltrinelli.


Mi dirigo verso la libreria Feltrinelli, che è lì nei pressi, proprio in via Melo, un paio di centinaia di metri. Con passo lento e dinoccolato, un passo sud del mondo di chi è in vacanza ed ha tutto il tempo...e a causa dell'afa, appena attenuata da uno strano vento alzatosi all'improvviso, eccomi entrare nella storica libreria dell'editrice fondata da Giangiacomo Feltrinelli. Dal marsupio verde militare su cui ho infilata una spilletta che rappresenta un caro ricordo, una stella rossa che sormonta le lettere nere bordate d'oro EZLN, Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, donatami anni fa da un militante dell'organizzazione durante un corteo a Milano, per il 25 aprile, tiro fuori gli occhialetti da presbite e comincio a monitorare i libri sistemati negli scaffali o poggiati su banchetti e gradini in bella mostra... Per brevità sintetizzo così: nessun Montalban o Palhaniuk e parecchi Carofiglio e Genisi, due giallisti baresi piuttosto in voga, e vorrei vedere. Seduto su uno scranno da qualche parte dentro il vasto falansterio bipiano della libreria, sfoglio un libro preso a caso. In realtà mi sono messo ad origliare una conversazione fra due signori distinti, dei quali, uno impeccabile, quanto al look, giacca e cravatta, passati non di poco i cinquanta, l'altro più casual, passati invece , lui, quest'ultimo, i sessanta, un po' di chierica al centro della testa, barba incolta da pensatore sofferto. Il pensatore sofferto  sta monologando di politica internazionale, sta parlando della guerra fra Russia e Ucraina, alla luce di un'analisi curiosa quanto originale. Ad alta voce racconta al suo affascinato interlocutore che la guerra non finirà finchè i russi non mollano la presa sulla Siria e non cessano di proteggere l'Iran...E' una questione molto complessa, fa, in perfetto e marcato accento barese, ci sono di mezzo anche rivalità fra diverse famiglie ebraiche...Gli askenaziti, di origine est europea, migrati negli Stati Uniti, molto ricchi...si vocifera che ricattino Biden e non gli permettano accordi con i russi. Spingono perchè Zelensky vinca la guerra totalmente...e poi ci sono i sefarditi, sempre ebrei anche loro, ma di origine araba, molto presenti in Spagna...questi sono di avviso opposto...si vocifera persino del fatto che i sefarditi finanzino Conte e i 5 stelle. L'interlocutore elegante lo osserva con deferenza. Mi piacerebbe creare un gruppo per discutere queste cose con te, dice rivolto al pensatore sofferto. E questo, sorridendo fa, d'accordo, però ti avviso che io non sono un animale sociale, rifuggo le adunate e i gruppi, sono uno che ama confrontarsi con le persone individualmente, conclude. Io sono un registratore, un cronista del pianeta terra, come già detto, e riporto per iscritto tutto quello che ascolto.

Esco dalla libreria e torno verso piazzale Umberto. Lo percorro al centro, diretto verso via Sparano, la Corso Buenos Aires di Bari, per fare un paragone. Solo che via Sparano è completamente pedonale.


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martedì 30 maggio 2023

Bari (parte due), Magda

 

                                             Bari (Seconda parte) , Magda.


Percorro a ritroso la strada che ho appena fatto, con l'intenzione di visitare un altro dei luoghi del ricordo, in questo caso di tipo gastronomico, che risalgono agli anni a cavallo fra l'85 e il  '91. Mi riferisco a Magda, storico panificio barese che ha deliziato da tempo immemore i palati di migliaia di studenti ( e non solo studenti) con la sua fcazz( la focaccia) fatta secondo regola, alla barese. Percorsi 200 metri, superato il parco di piazza Umberto, sulla destra, immortale e immarcescibile, seppur ristrutturato e reso in design ultramoderno, il panificio “Magda”, mi appare in tutto il suo splendore pavlovianamente foriero di salivazione pregustativa. Entro e mi metto in coda. All'ingresso, sulla destra, c'è un'anziana cassiera bionda che dev'essere una sorta di caporale di giornata in salsa rosa. Lo deduco da come osserva le lavoranti dietro al bancone, mentre tagliano e pesano la focaccia e da come approva o disapprova col capo. Prendo due pezzi di focaccia al pomodoro (rigorosamente e Gerini muta) e una bottiglietta di acqua naturale, dico alla dinamica ed esoticamente mediterranea, mora, che armeggia dietro al bancone come una prestigiatrice, abituata a sorridere davanti e accoltellare con morti e stramorti, una volta che si collocherà fuori da tuo focus , ed esco. Scelgo una panchina di pietra dietro il tronco striminzito di una palma e sotto quel sole malato che stenta a filtrare dalle nuvole, addento la mia fecazza ( o fcazz) alla barese, che qualcuno vorrebbe a giusta ragione includere nell'elenco delle bellezze ritenute patrimonio dell'umanità. Ad ogni morso, cambia il sapore, a seconda che si addenti la parte più bruciacchiata o meno. Questa focaccia è stata messa in forno appena fatta, senza che potesse ulteriormente lievitare e consumata così, calda, appena uscita, con i pomodorini ciliegino che ti ustionano il palato. Condizioni perfette! Finito il fiero pasto, su quella panchina, con la certezza che nessun ristorante avrebbe potuto trasferirmi quel sapore e quella circostanza di consumo faninaceo “alla crudele”, come amava dire mio padre delle situazioni culinarie spartane nelle quali prevale la voglia irrefrenabile dell'assaggio alla situazione di comodità intorno, proseguo dritto verso via Melo. Verso un altro dei luoghi del ricordo miei preferiti: La Feltrinelli.


Continua...


lunedì 29 maggio 2023

Bari ( parte uno), ricordi de La pantera

 

Bari (Prima parte)


Scendo alla stazione di Bari, un pomeriggio di maggio 2023, ore 15 circa. Fa caldo ma il sole è coperto da strane nubi attraverso le quali riesce con fatica a filtrare rendendo le immagini che mi si parano davanti sotto un effetto seppia, quasi in bianco e nero. Uscendo dalla stazione, davanti, al centro della piazza che si chiama Aldo Moro, c'è una fontana che zampilla e un vento caldo grecale ne vaporizza gli spruzzi facendo sembrare le auto che passano veloci degli ectoplasmi in fuga dagli umani. Sui lati della piazza ci sono alcuni giardini cintati da alcune siepi con al centro delle palme altissime che rendono l'approccio con la città molto africano. Sotto le palme le panchine di pietra sono affollate di giovani multietnici che bevono Peroni piccole e fumano sigarette Winston Blue. Proseguo dritto di fronte a me, la stazione alle spalle, e mi infilo in una strada ammattonata grigia con vari bar sui lati ed al centro panchine stilizzate postmoderne con su seduti vecchi con cappelli tipo panama ma di paglia. Subito mi trovo di fronte a Piazza Umberto, costituita da un'ampia strada pedonale al centro e un mucchio di siepi contrappuntate da palme africane altissime , distribuite geometricemente. Sulle panchine molti africani, nigeriani, senegalesi. Abitano nei pressi e forse il parco è il loro giardino personale sotto casa. Invece di proseguire dritto per il parco della piazza, viro a sinistra, voglio andare a vedere la mia vecchia facoltà, dove mi sono preso una laurea più di trent'anni fa, con il professor Matteo Pizzigallo e Franco Cassano, grande sociologo, in commissione a farmi domande, curioso...tanto per parlare di due grandi menti che non ci sono più. A destra il parallelepipedo d'epoca dell'Università degli studi di Bari, le facoltà di Lettere e Filosofia. Cento metri più in là, sempre sulla destra, la facoltà di Giurisprudenza. Davanti ci sono transenne e lavori in corso e i soliti giardini con degli alberelli striminziti. Non li ricordavo. Salgo le scale del vasto palazzone, tutto sommato in stile tutt'ora moderno, non senza una certa emozione. Davanti c'è una vetrata che reca una scritta che recita così: Facoltà di Giurispudenza e, accanto, Dipartimento di Scienza Politiche. Sono un cronista del pianeta Terra, con gli occhi filmo, con il cervello registro e filtro. Le emozioni mi assalgono all'improvviso. Nello spiazzo interno che si apre fra le ali del palazzone c'è la statua di Minerva. E già all'epoca ti dicevano di non fissarla troppo se volevi laurearti. Sui lati , di fronte alla statua, ci sono delle scale metalliche a vista che portano ai piani superiori. Non le ricordavo. Salgo sulla scala destra e, in cima, sul pianerottolo, ci sono 4 ragazze androgine che discutono animatamente di amori e disamori. Entro scostando la porta a vetri. A sinistra un corridoio con aule chiuse e una invece aperta. E' piena di studenti e si sta tenendo un esame. Due o tre di loro hanno le gambe incrociate ed un principio di dissenteria incipiente. Ridiscendo dalla scala metallica, fra gli sguardi perplessi di alcuni studenti che si stanno chiedendo come mai uno con i capelli bianchi e la faccia da professore che evidentemente non è il bidello, si stia aggirando furtivo per i loro corridoi. Una volta ridisceso dalla scala, mi dirigo a destra, dove c'è Scienze Politiche, una facoltà che rifarei tutta la vita, nonostante non sia foriera di sbocchi professionali certi. Il bidello, molto più giovane di quello dei miei tempi, che si chiamava Gazzillo era tarchiato ed era di Adelfia, mi osserva anche lui con sospetto. Questo è più magro ma ugualmente tarchiato. Entro nella mia ex facoltà e le emozioni tornano ad assalirmi. Sono passati più di trent'anni, ma non è cambiato niente, sul piano laterizio. L'aula “Samarcanda”, all'epoca l'avevamo chiamata così, sempre piena di studenti e diretta promanazione del movimento studentesco “La Pantera”, la seconda a sinistra, è chiusa. Le porte chiuse marrone chiaro bardate di liste metalliche sono il simbolo di un passato che non tornerà più. Non tornerà più quel movimento animato da giovani pugliesi di tutte le province, ma anche lucani, che, emanazione del più vasto e nazionale movimento che prese nome “La Pantera” in onore di un felino scappato da un circo e mai più ritrovato, scesero in lotta contro una legge che voleva privatizzare le università ed emanata dall'allora ministro della pubblica istruzione, socialista, Ruberti. Una quantità assurda di ricordi mi si affolla nella mente, quasi da scriverci su un libro, per quantità e qualità: ricordo le assemblee, durante le occupazioni, con gli atenei di tutt'Italia che ci comunicavano momenti e risultati della lotta via fax ( allora internet non c'era). E ricordo che ci fu un corteo , a Roma, il cui spezzone più numeroso fu proprio il nostro, quello pugliese. E ricordo che sul palco a parlare per tutto il movimento salì, non senza qualche remora ed emozione, un giovanissimo Dario Ginefra ( che diventerà anni dopo deputato del Pd). Ricordo anche, fra le altre cose, che vennero ad osservarci molti giornalisti, lungo il corteo, fra i quali scorgemmo Giuliano Zincone, editorialista di punta del Corriere della sera, di quegli anni. Zincone, avendoci osservati e avendo parlato con noi, in seguito, si accorse che noi dell'università di Bari eravamo i più numerosi e i meglio organizzati. E lo scrisse. Scrisse che la Pantera aveva la testa al sud e che gli atenei che sarebbero stati più penalizzati dalla privatizzazione sarebbero stati quelli meridionali. Ricordo che avevo portato con me il tamburello e che suonai pizziche durante tutto il corteo. E infine, non per importanza, ricordo la faccia d quel lucano che pose a simbolo del movimento della Pantera di Bari, la frase di Corrado Alvaro, che recitava così: la più grande disperazione che possa impossessarsi di una società, è il dubbio che vivere onestamente sia inutile”. La ricordo ancora a memoria. E Google muto! Che faccia che aveva, quel mio amico. Ma non ne ricordo più il nome, come se il vento del tempo ne avesse scolorito i caratteri, di quel nome, scritti con spray rosso su uno dei muri della mia scatola cranica.

Esco dalla facoltà e ritorno in strada.


domenica 7 maggio 2023

Anatomia dell'irrequietezza, quasi una recensione...

Anatomia dell'irrequietezza, quasi una recensione.


Sabato, maggio, fuori quasi trenta gradi. Oggi non lavoro e non posso proprio perdermi questa splendida giornata di sole. Da Corsico prendo l'autobus per Romolo. Da lì, dalla fermata della metro, scenderò in stazione centrale, a Milano. E' il giro classico che faccio quando vado a Milano e voglio fare il turista pur abitandoci a uno sputo. E fin qui, nulla questio. Ma voglio fare un esperimento. Porto con me il libro di Bruce Chatwin, Anatomia dell'irrequietezza. Lo leggerò in giro, sui mezzi, seduto su panchine di strada, in mezzo al bailamme della città. Un po' leggerò e un po' osserverò. Sarà come portarsi con sé un amico. A Corsico salgo sull'autobus 325. Ho atteso seduto su un muretto, che regge un' inferriata di un piccolo giardino di palazzi anni '50. Il caldo improvviso ha immediatamente passerellizzato i marciapiedi e puoi vedere un mucchio di ragazze che vestono mise provocanti e decisamente al risparmio di stoffa. Mentre sono seduto inforco gli occhiali da vista, tirandoli fuori dal marsupio verde militare. Apro il libro di Chatwin e inizio a leggere: “ In collegio avevo la mania degli atlanti e venivo regolarmente messo a bando per le storie incredibili che raccontavo. I ragazzi erano tenuti ad essere tanti piccoli conservatori, ma io non ho mai capito, né allora né adesso, le motivazioni del sistema di classe inglese. E nemmeno perchè, nel Guy Fawkes Day, del 1949 i maestri esortassero a bruciare in un falò l'effige di Clement Attlee, il primo ministro laburista. Io mi rammaricavo per Attlee e, mai, neanche nella mia fase capitalista, mi sono indotto a votare conservatore”. Potrei dire che sottoscrivo, penso. Richiuso il libro sono salito sull'autobus. Lungo il naviglio mi dirigo, sul mezzo, verso viale Cassala. Dall'altra parte del naviglio, in mezzo le acque popolate di imbarcazioni del famigerato circolo canottieri Olona, una stretta striscia di asfalto affollata di podisti, camminatori, ciclisti...alcuni a torso nudo. Sull'autobus affronto la prima parte del libro, dove Bruce narra tramite una lunga e meticolosa ricostruzione delle origini della sua famiglia. Ma lo scopo non è affatto quello di accreditarsi provenienze da lombi nobiliari. Viene da uomini e donne che sono state ai vertici della società ma anche ai margini e soprattutto da avventurieri e in particolare parla delle zie , zitelle, una delle quali, Jane, che aveva fatto l'infermiera, era stata un'artista. Pittrice , ritrattista e soprattutto grande lettrice di letteratura moderna. Diceva che l'inglese con cui scrivevano gli americani era più limpido di quello degli scrittori inglesi e che adorava la parola “arse”( culo), letta per la prima volta su un libro di Hemingway. La zia Gracie invece era amica della scrittrice Eleanor Dorly, che le aveva fatto conoscere il Circolo di Dublino. In viale Cassala devo scendere e l'autobus è affollatissimo. Due nere in abiti succinti e occhiali da sole alla Black Panthers fuori stagione, mi precedono nella discesa dall'autobus. E una ragazza mora, capelli fluenti, rossetto viola e cappello da strega con un abito dallo spacco vertiginoso che mostra un tatuaggio sulla coscia sinistra quasi del tutto scoperta.

Sceso nell'antro metropolitano, passo il tornello punzonando il biglietto e scendo sotto verso i treni. Resto in attesa in mezzo ad una Babele di asiatiche e peruviane. Osservo le asiatiche e le peruviane, le peruviane e le asiatiche...e alla fine non ne distinguo più la provenienza, dato l'esotismo dei visi alquanto confinante. Guardo le ragazze perchè sono più fantasiose nel vestire, più ardite, osano di più, in mezzo ad un nugolo di ragazzi maschi che vestono tutti uguali e anonimamente.

Arriva il treno per Stazione Centrale. Mi siedo appena il treno si ferma, nel primo sedile entrando a destra. Tutti si siedono nel sedile che almeno su un lato non confina con nessun altro essere umano. Potrebbe in questo caso derivare dalla giornata calda e dall'eccessivo affollamento dei treni dovuto al "Liberi Tutti" lanciato proprio oggi da tutti i media, riguardo al Covid. Riapro il libro a cui ho fatto un'orecchia, come ai vecchi tempi e senza improbabili segnalibri.

Per qualche tempo diedi ascolto al consiglio di seguire la tradizione familiare e studiare da architetto;ma essendo negato ai numeri avevo probabilità molto tenui di superare gli esami. L'ambizione di calcare le scene fu stroncata con garbo dai miei,” Direi che quanto ad assonanze con il sottoscritto, ci siamo in pieno. Mai sopportata la matematica. E non c'è insegnante che tenga: proprio negato. Ritorno indietro di qualche pagina per rileggermi con gusto Chatwin che parla di sua nonna, di Aberdeen, grande giocatrice alle corse dei cavalli , diceva che i cattolici erano pagani ed aveva un modo molto incisivo di esprimersi. Una volta di uno che si era affacciato a guardare nella cabina telefonica mentre telefonava disse che aveva la faccia come il culo di un bue senza lacoda a separarla. Sorrido di gusto e tutti intorno mi guardano come un pazzo. Intenti come sono a non ridere di un cazzo di niente compulsando i propri telefonini.

Per arrivare in Stazione Centrale è un lungo viaggio. Lungo le fermate salgono e scendono a decine. Presto l'aria all'interno del vagone si fa irrespirabile e l'odore acre del sudore diventa dominante. Non senza frammischiarsi ai profumi intensi con cui amano farsi il bagno la maggior parte di coloro che il bagno non lo fanno. E nemmeno la doccia. Nel frattempo leggo che Chatwin, poco interessato ai libri per ragazzi che gli capitava di leggere, tentò di scrivere un libro a sei anni. Il titolo era “sono una rondine” ma non sapevo ancora scrivere “fili del telefono”, aggiunge. In seguito frequentò biblioteche che gli schiusero le porte di libri di scrittori di viaggio: Baudelaire, Li Po e altri vagabondi cinesi, l'immancabile Rimbaud, Nerval e Blake.

Le fermate dove sale più gente sono Cadorna e Garibaldi, perchè lì si trovano gli snodi per le linee della metro di altri colori. Sono l'unico che legge un libro di carta. Una signora seduta a fianco sta scorrendo sul cellulare il rullo delle notizie che mischiano impietosamete l'Isola dei Famosi alle Bombe russe in Ucraina. Ad un certo punto resto folgorato da un pensiero di Chatwin. Mi pare chiaro che il libro è una raccolta di scritti, articoli, pagine di diari e racconti che vanno a formare una sorta di biografia letteraria dello scrittore, ma è questo pensiero che mi fa affezionare e mi fa capire la modestia dell'uomo, nonostante i successivi successi letterari: “A poco a poco l'idea di un libro cominciò a prendere forma. Doveva essere un'opera sfrenatamente ambiziosa e intollerante, una sorta di “Anatomia dell'irrequietezza”, imbastita intorno al detto di Pascal sullo starsene quieti nella propria stanzetta. Il discorso grosso modo era questo: l'uomo , umanizzandosi, aveva acquisito , insieme alle gambe dritte e al passo aitante, un'istinto migratorio, l'impulso a varcare lunghe distanze nel corso delle stagioni; questo impulso era inseparabile dal sistema nervoso centrale; e quando era tarpato da condizioni di vita sedentarie trovava sfogo nella violenza, nell'avidità, nella ricerca di prestigio o nella smania del nuovo. Ciò spiegherebbe come societa' mobili come gli zingari siano egualitarie, libere dalle cose e restie al cambiamento; e anche perchè, nell'intento di ristabilire l'armonia dello stato primigenio, tutti i grandi maestri-Buddha, Lao Tse e San Francesco- abbiano messo al centro del loro messaggio il pellegrinaggio perpetuo e raccomandato ai loro discepoli, letteralmente, di seguire la via.” Ma poi, successivamente Chatwin spiega che il libro pur lievitando, fu considerato impubblicabile e si sentì frustrato e fallito come scrittore. Già si manteneva lavorando nell'arte, per la precisione per la prestigiosa casa d'aste Soteby's. Per fortuna, pare dire. Perchè non si sente affatto competente. Ricordando, anzi, che si sentiva pervaso di un insano godimento, tutte le volte che individuava negli oggetti d'arte che i possessori volevano vendere a peso d'oro, che erano falsi. E questa attività alla casa d'aste, per il fatto stesso di esaminare centinaia di tele al giorno, secondo lui stesso, gli procurò un problema al nervo ottico e una temporanea cecità. Che fu attribuita a problemi psicologici . In particolar modo alla mancanza di sguardo sui grandi orizzonti. Fu così che cominciò a viaggiare. “Un pomeriggio dei primi anni settanta, a Parigi, andai a far visita a Eileem Gray, architetta e designer, che a novantatrè anni lavorava come niente fosse 14 ore al giorno. Abitava in Rue Bonaparte e nel suo salotto era appesa una carta della Patagonia. -Ho sempre desiderato andarci-, dissei. -Anch'io-, fece lei,-ci vada per me-. -Andai.-”. E fu la sua fortuna, con uno dei più bei libri di viaggi:” In Patagonia”.

Scendo in Stazione Centrale ed ho letto, rapito, un bel po' di pagine. Salgo in superficie su Piazzale Duca D'aosta, trovandomi alle spalle l'opera littoria della stazione con in cima leoni ruggenti paralizzati nel marmo. Nella mia mente ancora la scena di poco fa, mentre leggevo Chatwin:”(passando a Timbuctu) Il visitatore di passaggio si fa solo due domande: dove troverò da bere la prossima volta e perchè mai sono qui. Eppure mentre scrivo ricordo il vento del deserto che frusta le acque verdi; il cielo rivestito da una lamina di azzurro violento; le donne enormi che dondolano per la città nei boubous di cotone indaco chiaro; le imposte delle case dello stesso azzurro violento contro i muri grigio fango;gli uccelli del paradiso arancioni che tessono i loro nidi a cestello nelle acacie piumose; i lustri giardinieri neri che schizzano acqua dagli otri, amorosamente, su filari ci cipolle verdazzurre; i magri, aristocratici, tuareg, dall'aspetto soprannaturale, con scudi di pelle colorata e lance lucenti, le facce incorniciate nei veli indaco che come carta carbone tingono la pelle di un blu temporalesco; i mori selvaggi con i riccioli a cavatappo; le fanciulle dai seni sodi, fanciulle bela della vecchia casta schiava, nude fino alle vita, che pestano nei mortai segnando il tempo con un canto monotono; e le monumentali dame songhai con grandi orecchini a canestro, simili a quelli portati dalla regina di Ur più di quattromila anni fa...” e avevo alzato la testa e davanti avevo un nero del Mali in costume tradizionale che guardava il telefonino sorridendomi....come se mi stesse leggendo nel pensiero.

Due senegalesi mi si avvicinano chiedendomi se voglio qualcosa, qualsiasi cosa , dalla coca a donne , persino uomini. Imbocco via Vitruvio diretto verso corso Buenos Aires e a metà circa, una ragazza molto giovane , in calze a rete da film porno, piena di piercing, bionda, occhiali da sole, si sta specchiando in un negozietto di cannabis light.

Una volta in Corso Buenos Aires, la via dei negozi, una folla di persone mi sommerge impedendomi quasi di caracollare sul marciapiede. A metà circa del corso ,siedo su un sedile di legno che fa da corona a una pianta esotica ornamentale. Accanto a una donna peruviana con due bambine che strillano giocando con degli album da disegno. Intorno schiamazzi e traffico. Affronto un racconto di Chatwin, l'ennesimo, seduto lì: intorno un traffico pazzesco e chiasso insopportabile. Mi sono abituato da anni a leggere e scrivere in qualsiasi situazione. Il racconto dal libro in parola, Latte, narra di un americano che capita da qualche parte in Algeria e in un mezzo bordello conosce una donna bellissima ma male in arnese, Gerda, ex giornalista poi abbandonata dal suo giornale lì, licenziata. Diceva che odiava neri ed ebrei e che anche De Gaulle era ebreo e che amava solo gli arabi. In quel momento mi si siede accanto un marocchino, con i denti anneriti, fuma una sigaretta. Alzo lo sguardo sotto gli occhiali da sole a specchio e lui sgombra con tanto di scuse perchè si rende conto che mi sta infastidendo con il fumo. L'arabo rispettoso, lo battezzo all'istante. Ricorda i tanti neri africani con i denti colorati masticando noci di cola o altro. Per le strade dell'Algeria, Jeb, l'americano protagonista del racconto, beve latte da una donna nera macilenta che allatta il suo bambino. Latte di capra non sterilizzato, a rischio brucellosi. E poi ne chiede dell'altro, la donna fa sparire la moneta che le dà Jeb sotto il vestito blu cobalto. Che voglia di latte di capra. Lo trovo all'In's di solito e lo compro sempre, tutte le volte che faccio la spesa. Mai bevuto nulla di più dissetante. Mi rimetto in cammino e vicino al Mac Donad, quasi piazzale Loreto, due gay giovani si scambiano effusioni. Proseguo per la fermata della metro, dove , di lì a poco, prenderò il treno per tornare a casa....giusto il tempo per finire il libro e avere a che fare con i suoi fantasmi viventi.




 

venerdì 21 aprile 2023

Guerre Stellari, terza parte

 


Il viaggio ( terza parte di Guerre Stellari)


Comincia a sgranocchiare patatine, le chips, le più rumorose e siccome ha già infilato nelle orecchie gli auricolari, non sente che fa il rumore di 1000 scoiattoli che attaccano un noceto. Un'ora così. Nietzsche non mi è mai parso così condivisibile nel giudizio sulle donne come nella lettura che sto facendo nei frangenti in parola. Verso le due (notte) ci fermiamo per una pausa di un quarto d'ora. L'autogrill verso Parma è strapieno e io faccio appena in tempo a terminare la coda in cassa con la mia scatola di chips ( oh vendetta, tremenda vendetta!) che il quarto d'ora è bello che terminato. Ripartiamo. La mia compagna di viaggio è già seduta e sbuffa perchè deve ruotare le sue natiche rinsecchite per farmi passare. La gonfiacuscini sta finalmente dormendo e sogna Lucia che si gode la credit card dell'ex fidanzato; mi siedo e inizia “l'operazione pan per focaccia”. Apro la scatola di chips e inizio a sgranocchiarli. La mia vicina ha dismesso per un attimo gli auricolari e fa segno di coprirsi le orecchie per il fastidio sonoro. Ci metto più di un'ora a finire le chips, assaporandole lentamente, mentre lei ha finito la batteria agli auricolari e non può finire di vedersi la sua maledetta serie tv. Morale della storia, chi di chips ferisce di chips perisce. Lei riceve un'altra telefonata e giù insulti ai suoi “amici” e conoscenti, uno era coglione, un'altra una troia fottifidanzati, poi doveva andare a Parigi con tutto il suo corredo verbale da parrucchiera. Siamo seri. Non ce la può fare. Mi ricorda sempre tutte quelle volte che sbarco ad Ostuni e con chi parli parli vengono fuori nomi di gente che è emigrata ed è diventata dirigente. Sono tutti dirigenti, Nessun facchino. Certo, adesso Ostuni è la nuova Silicon Valley. Come no. Se gli facessero la macchina della verità la farebbero esplodere! L'imperativo categorico è diventare dirigente o niente. Be', alcuni sono diventati entrambi, mi pare. Alle 4 ci fermiamo a Tortoreto. Scendiamo. Entriamo nell'Autogrill dove ci siamo fermati e per fortuna il posto è vuoto. Dopo aver fatto colazione e aver constatato che pure in Abruzzo i cornetti li chiamano brioche, come a Milano, girovago per l'area prodotti antistante il bancone del bar. C'è di tutto di più. Ma non ci sono libri: neanche Fabio Volo e l'immancabile Manuale sui benefici dell'Aloe Vera. Ripartiamo dopo 15 minuti e mentre salgo sul mezzo do un'occhiata alla luna piena che si erge lassù in mezzo alla lavagna del cielo. La mia amica è già seduta, mezza addormentata e sbuffa, perchè deve di nuovo ruotare e spostarsi sul sedile per farmi passare. Miss Uffa, si potrebbe chiamare. Il prossimo tema della telefonata ( ma a questa qui le telefonano in piena notte, devo dirlo a Lucia, se conoscessi Lucia) a Parigi i coiffeur parlano di libri, che città strana. Ripartiamo. Lei si addormenta, io vado avanti con Nietzsche.


L'alba del tavoliere ci coglie con un paesaggio di nubi frastagliate che assumono le forme più disparate. Una delle poche cose che assumono da questa parti. A parte gli africani che raccolgono pomodori per 18 ore al giorno. Per questo uno se ne va. Poi parliamoci chiaro, con duemila e tre, fra affitto, spesa, aperitivi e qualche vestitino all'H&M , che ci resta? Due dita negli occhi. Per questo devi comprati gli occhiali da vista stilizzati di tartaruga. Dici, ma tu anche sei un'emigrante. No. Io sono un viaggiatore, sono andato a Milano per amore. E poi quand'è finito, sono rimasto e ho vissuto.


Cominciamo a fermarci nei vari paesi del barese e i passeggeri scendono. Recuperano dal bagagliaio enormi valigie vuote. Che riempiranno con ogni ben di Dio alimentare al ritorno. A questo servono le valigie quando torni.

A Ruvo di Puglia la mia compagna di viaggio non salutante e sconosciuta, finalmente scende. Prima di lasciare l'autobus, sbuffa, Uffa è il suo saluto. Stiamo tutti morendo lontani dalle nostre radici, eppure c'è chi pensa di morire meglio degli altri. Aver compagno al duol scema scema scema....






mercoledì 19 aprile 2023

Guerre stellari, seconda parte

 




Il viaggio (Parte 2 di Guerre Stellari)

Uno degli autisti, che poi si danno il cambio alla guida , chiede dove andiamo. Ad Ostuni, dico. Mi invita a seguirlo e metto il mio trolley nel portabagagli posteriore sull'autobus. L'altro autista, un tipo ageè corpulento e brizzolato controlla con lo scanner del telefonino il mio biglietto: Posto 27, in alto, afferma con accento barese. Salgo da una scaletta interna all'autobus bipiano, individuo il mio posto e mi siedo. Le poltrone sono comode e , per il momento, il posto a fianco a me è vuoto. Individuo sotto la poltrona la presa del carica batterie del cellulare e lo collego. Buio, ora, 20,30 circa. Pochi minuti dopo l'autobus parte e mentre siamo in movimento serpeggiando col mezzo in mezzo alla panoplia di altri autobus, l'autista in seconda passa a contare i passeggeri. Metà posti sono vuoti, ma dobbiamo fermarci a San Donato dove ci aspetta un altro carico umano. I passeggeri sono variegati, giovani, di mezz'età, qualche anziano, due o tre gender fluid ( il look è quello, perlomeno) orecchini a naso e orecchie e quei terribili auricolari senza fili che ti danno la possibilità di parlare al telefono sembrando pazzi che parlano da soli. Lungo la tangenziale trafficata, andiamo lenti e già accumuliamo ritardo. Saranno dodici ore di viaggio circa, prima di arrivare a destinazione. A San Donato imbarchiamo l'altro carico e io conoscerò il mio compagno o compagna di viaggio del posto accanto. E' una ragazza sui trent'anni, bionda, molto magra, occhiali da vista stilizzati, auricolari senza fili infilati nelle orecchie, pantaloni da tuta e maglioncino a maniche verdi. Ha con sé uno zainetto e vari apparati elettronici che non capisco come riesca a tenere tutti insieme, tipo cellulare e ipad. Si siede senza alcun saluto e convenevole, osservandomi come un insetto un insettofoba, con fastidio, quasi. Lo noto dalla sua espressione scocciata/imbronciata. Dopo essersi seduta dà un'occhiata nei due sedili a fianco, in meszzo c'è il corridoio. Lì sono sedute due ragazze, una, sul corridoio, sui quaranta e con a fianco una ragazza molto giovane che ha preso a gonfiare un cuscino che presumibilmente infilerà tipo collare post colpo di frusta, per avere un giusto confort durante il viaggio, preludente una pronosticabile dormita. Poco dopo l'autobus riparte e ci infiliamo nella tangenziale e poi passato il casello, in autostrada. L'orologio a datario iridescente nel buio incipiente in cui è sceso l'autobus, mostra giorno e ora completamente sballati( cosa che ho notato sempre in tutti gli autobus della Marino presi in tutti questi anni migratori su è giù tra Milano e Puglia e viceversa). Nel prosieguo del viaggio accendo la lucetta per leggere un libro che ho con me, “Al di là del bene e del male”, di Nietzsche. La mia compagna coscritta di viaggio mi osserva come uno pterodattilo. Sono l'unico che ha acceso la lucetta da lettura e si dà da fare a sfogliare un libro cartaceo. Lei per tutta risposta accende l'Ipad e comincia a guardarsi un film. Per fortuna ha gli auricolari per cui non mi disturba. Ma poco dopo iniziano le telefonate di rito poco prima della partenza. La giovane accanto al finestrino opposto al mio, che anche io sono sul finestrino, quella del cuscino gonfiato, riccia, occhialuta anche lei, ad alta voce, inizia una conversazione con un'amica che inizia con : “adesso cerco di spiegarti che problemi ha Lucia”. Si preannuncia un trattato orale di shampismo verbale militante spacciato per trattato di psicologia....Tutto l'autobus ascolta i fatti suoi...o meglio, di Lucia. E ci vuol poco a capire che questa Lucia non è una santa, nonostante il nome da santa, perlomeno nella disamina della sua pseudoamica. La mia compagna di viaggio, a fianco, riceve una telefonata, per cui risponde e continua, contemporaneamente a seguire il film. All'inizio, risponde annoiata. Sembra sia una sua amica. Parlano di lavoro, di design week, e del fatto che durante le vacanze pasquali, per un giorno, deve andare a Roma, da un cliente. Io la guardo di proposito dopo che dice “cliente”, così, per misurare il disagio di un fraintendimento...che volete, sono fatto così. Lei si schermisce e finge di posare lo sguardo su un film del quale non sembra importarle molto. Io torno a Nietzsche. Dopo un po' la giovane gonfiatrice di cuscini è impegnata nel racconto di Lucia e ormai tutto l'autobus sa che questa Lucia le ha soffiato il ragazzo, del quale, mi pare di capire, la gonfiatrice di cuscini rimpiange il patrimonio familiare, mentre dalla mia vicina sono venuto ad apprendere che è di Molfetta e che sta per andare a Londra in missione e poi a Parigi...Mi mette a parte malgrè moi dello stipendio del suo ragazzo, sui duemila e due e di una sua amica che vive e lavora a Parigi ma è costretta da quel coglione (testuale) del suo ragazzo, che accetta solo lavori saltuari e mal pagati, a vivere in un quartiere di negri e morti di fame ( testuale), mentre lei viene da Bevery Hills (Molfetta), quest'ultima cosa la aggiungo io mentalmente. E già a continuare con una spatafiata di critiche agli stipendi di gente che conosce e che definisce amici e che sarebbero degli sfigati che non accettano i suoi consigli, che, udite udite, l'avrebbero portata sui duemila e tre ( e sticazzi?). Poi finalmente, dopo aver lanciato due o tre altre frecciatine, si tace, non senza prima concludere col dire che ora avrebbe finito di vedere la serie tv che stava guardando. Finalmente portò leggere Nietzsche in santa pace, penso.