venerdì 17 agosto 2018

L'estate del 2018, parte uno

Eccoci qui , ancora, ancora un'altra estate che il buon Dio mi concede di trascorrere ad Ostuni. Con i miei gloriosi vecchi. Partigiani della sopravvivenza a 86, mio padre ironicamente definito "Il Boss" e mia madre, Donna Germana, come si diceva una volta, alla maniera del linguaggio del rispetto del blasone e della memoria locale, che di anni ne ha 80.


L'autobus della Marino mi lascia davanti al palazzetto dello sport, istoriato delle solite scritte demenziali e di campanile, tra le quali leggo l'immancabile "Ceglie merda", che come si direbbe psicanaliticamente, esprimono una certa malcelata "rosicata", a prescindere.
Ho viaggiato tutta la notte ed ero riuscito a prendere l'ultimo autobus della Marino alla fermata della metro linea gialla, a San Donato. L'autista dell'autobus, un tipo tarchiato e  sveglio, mi aveva chiesto se andassi ad Ostuni, ma io sul biglietto avevo scritto "Rosa Marina", località marina di Ostuni, dove di solito, alla stazione di servizio Erg, fermava. Ma deve andare ad Ostuni?, mi fa. Sì, veramente sarebbe più comodo. Non si preoccupi, "attacco lu ciucciu addo vole lu padrune", dice in brindisino, " ti ci accompagno io", conclude. Prende il mio bagaglio e lo sistema secondo una sequenza di discesa dei passeggeri dall'autobus. Aria di casa, insomma. Prima, viaggiando in metropolitana, avevo visto salire ad una fermata due giovanissime ragazze arabe , indossavano l'hijab e una di loro, dall'avvenenza abbagliante, osservava tutti intorno con aria ironica, divertita. Si muoveva sinuosa come una modella, assieme all'altra, che aveva gli occhiali e reggeva dei libri in mano come portasse delle reliquie. Sono rimaste in piedi ad attendere la loro fermata. Chiacchieravano e sorridevano amabilmente. Due ragazze nate in Italia . Probabilmente molti penseranno che si trattava di ragazze cui le famiglie avessero imposto quell'abbigliamento acconcio alle loro tradizioni. Ma non sembrava che la cosa  le disturbasse  , anzi, a dir il vero, l'hijab, coprendo loro il capo e lasciando in evidenza il volto, pareva la cornice di due quadri leonardeschi, sacri , eppure, come tutte le cose sacre, lasciando trasparire un pizzico di civettuola sensualità. Non credo sia solo il becero feticismo occidentale di cui ovviamente dovrei essere intriso, che mi genera queste riflessioni, ma anche le numerose ragazze conosciute a Milano che vivono questa condizione, le quali, pur lasciate libere dalle loro famiglie- che capiscono che integrarsi ha la prevalenza economica sussistenziale sulla forza della tradizione avita-, hanno scelto scientemente di seguire le tradizioni delle loro origini. Ne ho conosciuta una in particolare, di queste ragazze, una tunisina, nata in Italia da madre Tunisina e padre leccese. Una volta è venuta a trovare suo padre che in quel ristorante fa il cameriere, vestita con abito lungo e hjiab. Be', vi garantisco che quando è entrata la sala del ristorante si  è illuminata di mistica sacralità...un volto bellissimo, olivastro, occhi penetranti e vispi. Suo padre chiacchierando con me poco dopo che la figlia aveva tolto di lì le tende, mi si perdoni l'espressione che se fosse stata pronunciata da Salvini sarebbe stata quantomeno sospetta di razzismo trucidochic, avvicinandosi al tavolo mi ha spiegato che sia sua moglie, una donna Tunisina poco religiosa, che suo a figlia , italianissima nata a Milano, da qualche tempo si erano messe a pregare. Ed avevano sentito questo bisogno di continuare a farlo e di seguire le tradizioni mussulmane, smussate, ovviamente , dagli eccessi del radicalismo dei paesi d'origine. Tanto che si potrebbe affermare che questi esempi potrebbero portare ad un autoriforma dell'Islam , depotenziando, a lungo andare, qualsiasi spinta radicale o estremista.


Comunque avevo viaggiato di notte, per guadagnare un giorno di ferie. Avevo infatti lavorato fino alle 19. Poi ero passato da casa, avevo preso il bagaglio , l'autobus e la metropolitana.


Il Brother, come chiamo affettuosamente mio fratello, un inglesismo, perdonatemi , che viene un po' dai rapper italiconazionali e pronunciato propri così, come si scrive, mio fratello, mi accoglie con il suo solito sorriso franco e gli occhi verdi rubati a mia madre. E' magro, in forma e già abbronzato, essendosi portato avanti, lui residente in Emilia, con qualche puntata weekendina nel ravennate....
Qualche rapido scambio di convenevoli e già attraversiamo la città con un'auto presa al noleggio.
Una volta in campagna l'abbraccio con i miei è sempre commuovente. Sono stato fortunato ad averceli vivi sino alla mia non più verde età. Una perlustrazione alla campagna, la casa è un vecchio fabbricato ereditato dai nonni materni, è un must che mi concedo sempre. Dopo aver incassato una salve di complimenti sul mio girovita, assottigliatosi non poco, dato che da tre mesi , dopo due anni di yoga e basta (il problema non è lo yoga ma il concetto di yogaebasta) , mi ero rimesso a correre. E il risultato era stato stupefacente. Tredici chili persi senza una dieta rigida, ma solo assecondando i desiderata dell'organismo, che , rimettendosi metabolicamente in asse, dava segnali evidenti di non gradire più le abbuffate nevrotiche post stress da lavoro. Intorno alla casa e di fronte dei pini che hanno più di trent'anni. Li ricordo come fosse ieri, piccoli e spelacchiati, dono del papà del mio compagno di scuola Beppe P. , storico forestale ostunese. Sono diventati immensi e i loro tronchi contorti , che spuntano da un tappeto di aghi di pino secchi uniforme, sono ormai immensi. Sulle loro cortecce a profluvie le esuvie delle cicale stazionano chitinose come animaletti preistorici della "Atlantic", storica casa produttrice di soldatini (di cui possedevo tutte le collezioni, giapponesi, nazisti e quant'altro. E l'Armata Rossa-di cui avevo due scatole, perché dovevano vincere sempre!).
Le cicale, mo' è , a dire, con la calura dei trenta e passa gradi, erano scatenate nei loro concerti canori, sottofondo immancabile estivo, genius loci sonoro altosalentino.  Poi l'ettaro di terra intorno, disseminato di ulivi, giovani , diretti nella loro orchestra di crescita, dal vecchio ulivo secolare, vestito da una gonna di pietre a secco tondeggiante e imbiancata a calce, sulla quale ci si siede volentieri. Ad ascoltare i grilli, in quella parte del tramonto, in cui mettono a nanna le cicale. E i meravigliosi alberi di fichi, sui quali controllo che ci siano già, in piena maturazione, questi frutti benefici anticolesterolo e dalle enormi altre virtù. E , in fondo ad un viale sterrato che fende il fondo agricolo a metà, i noci, piantati per volontà di mio zio Stefano, il fratello di mia madre, sempre prodigo di parole misurate e di giustezza, ingegnere e cacciatore d'antan, di cui tutti noi sentiamo la mancanza (scomparso piuttosto prematuramente) e del  quale ricordiamo il tipico saluto di quando in certe lontane estati , ci veniva a trovare, esordendo appena sceso dall'auto parcheggiata sotto i pini con il suo raucale"ueh". A fianco ai noci degli alberi di fico e all'estremo limite, al confine con un altro podere uno storico albero di lentisco, pianta dalle molteplici proprietà. Di fronte, a 50 metri, ce n'è un altro, sotto il quale bisnonno e nonno si sedevano con un vecchio fucile calibro 16 per sparare ai beccafico , che solitamente stazionavano sul lentisco dopo scorpacciate , indovinate un po', omen nome, di fichi...per ripulirsi il becco con la resina dell'albero e dei frutti di praline rosse. In dialetto di chiamano "falavette" e solitamente venivano in gran quantità spennate e servite in tavola dalla nonna Maria, madre di mia madre, cucinate nei più disparati modi. Per cui la falavette prima venivano sparate e poi servite in modi disparati. Niente, l'assonanza nello scorrere dei pensieri, ci sta. Ricordo l'odore della polvere da sparo delle cartucce ricaricate da mio nonno (padre di mia madre)che ho conosciuto di straforo e di cui ho vaghi  ricordi. Sotto il lentisco rovi di more frastagliati crescono rigogliosi e già i frutti sono maturi e pronti per marmellate o ingentilir yougurt. Cammino sulla terra rossa, un colore unico al mondo e che caratterizza tipicamente queste terre appulo salentine. Nostalgia dei filari di viti da cui assaggiavo in tenera età grappoli d'uva di varietà che vanno scomparendo. Sostituite da varietà commercialmente più proficue imposte dalla boria del mercato.
Ripercorro il viale di 80 metri dove da ragazzo mi esercitavo nella corsa veloce senza un gran successo, essendo io più portato alla corsa di resistenza. Ecco, sto bene in mezzo agli alberi e ascolto la voce del vento, che interpreto sciamanicamente, a seconda che spiri o meno, che sia brezza o impetuosa tramontana, che appaia o scompaia come l'alito della terra tra i denti degli ulivi, come segni di approvazione e diniego, ai miei pensieri...

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