martedì 18 aprile 2023

Guerre stellari

 



Guerre stellari (prima parte del racconto di un viaggio)



Stazione della metropolitana, Lampugnano, Milano. Ci arrivo dopo un viaggio in metro tra linea verde e rossa della metropolitana milanese. All'uscita dei tornelli senegalesi vendono borse e altro, il tutto posato su teli pronti per essere richiusi in un batter di ciglio all'arrivo della Polizia Locale. Tutti i neri inforcano occhiali da sole, 18,30 di un giovedì. Devo prendere un autobus della Marino per andare ad Ostuni, in Puglia, per una manciata di giorni di ferie pasquali. Fuori da questo edificio di mattoni rossi della fermata della metro di Lampugnano che fa molto case di mattoni rossi di Lowell di Kerouachiana memoria, un caravanserraglio, un suk, di passeggeri in attesa di enormi autobus che li porteranno in giro per l'Italia presso i rispettivi affetti familiari e non... e comunque affetti. Sembrano i dintorni di un quartiere di una città di un pianeta sperduto preso a prestito da Guerre Stellari: arabi, africani, est europei, italiani del sud...siedono su panchine sotto le pensiline, poco fuori, in attesa dei potenti mezzi gommati che come balene d'acciaio ci accoglieranno come tanti minuscoli Giona in ventri cetacei popolati di vertebre di poltrone di pelle che non mancano di tavolini e prese per immancabili smartphone. Una ragazza orientale, Thay o Filippine, mangia spaghetti al sugo seduta su una panchina circondata di trolley che paiono robottini di Star Wars. E lo fa con piacere, appetito, avidità, come fosse l'ultimo pasto di un'ultima cena di un leader di una qualsiasi religione in cui credere. A cui aggrapparsi. Un autobus albanese scarica alcune peruviane che ne devono in seguito prendere un altro per chissà dove. Fuori, di fronte alle pensiline, palazzoni di uffici della metropolitana e intorno cortei volanti di rondini riapparse miracolosamente da anni in una Milano ormai patria degli storni e dei piccioni. Vago con il mio trolley al seguito e registro tutto con lo sguardo e una memoria visiva, filmica quasi, di cui la natura mi ha dotato: posso osservare un volto a Barcellona per cinque minuti e riconoscerlo anni dopo sotto la Fontana di Trevi. Conosco solo uno scrittore che era capace di questo: si chiamava Jack Kerouac. Gli autisti della Marino confabulano tra loro. Complessioni robuste e accenti di ogni parte della Puglia. Spuntano look fluid gender, capelli lunghi raccolti in codini e metrosessualismi di maniera, più che di sostanza, conditi da accenti baresi che per le loro intonazioni posso assimilare a partecipanti di gay pride parigini. Rientro dentro l'edificio di mattoni rossi, zigzagando in mezzo ad un gruppo di africane dai somatici mascolini e dai capelli caratteristici a trecce che ci vuole una vita a farseli fare, mentre guardano una sitcom senegalese o nigeriana ambientata in case alla Bevery Hills con tappeti di pelli di leopardo in terra, fra poltrone e divani in pelle e tamburi d'immaginazione... Dentro l'edificio c'è un bar che vende caffè e cornetti in stile american bar, dietro il bancone c'è un indiano che dispensa sorrisi in stile Bollywood. Accanto, poco fuori, tavolini ospitano abitanti del pianeta delle più disparate razze e favelle. Al centro, seduto ad un tavolino, un clochard con in testa un cappellino di lana giallorosso tipo del Lecce. Fuma una sigaretta handmade, fuori c'è ancora il sole, ma fa freddo. Un arabo con un vespino con sul retro una cassettina per asporti, si muove fra i passeggeri in attesa offrendo pizze e kebab a costi stracciati che giura essere ancora caldi e appetitosi come appena fatti. Fuma una sigaretta in attesa si piazzare la sua mercanzia. Più indietro, percorrendo uno stretto budello fra pareti di mattoni rossi, si giunge ad un altro bar, più traditional, con il solito corredo del mordi e fuggi alimentare da viaggio di pizze pizzette e focacce, ben esposte sotto un vetro davanti al bancobar. Sta per chiudere, quasi, ore 19,30. Ritorno verso le pensiline. Un'africana carina con le gambe arcuate fasciate da jeans attillatissimi, capelli lunghi trecciati, molla una valigia a rotelle ad un giovane africano seduto ad un tavolino all'aperto facendo segno di dover andare in bagno e che badasse lui al bagaglio, nel mentre. Non so quanti italiani farebbero la stessa cosa. Ma lei lo fa all'insegna del “we trust in you.” Torno verso le pensiline e ascolto, pur nel vociare tremendo, in sottofondo, lo stridìo delle rondini che si rincorrono in cielo lassù in alto su alberi striminziti di una specie di giardino sullo sfondo del quale intravedo un camioncino che vende panini caldi. Chiedo ad un uomo in divisa blu della Marino, cappellino di lana calato in testa, occhiali oscurati anche da vista, dove portò prendere il mio autobus. Vado ad Ostuni, dico. Marciapiede b è la risposta sintetica. Ha in mano una cartelletta in cui immagino siano segnati tutti gli autobus, annotati con dovizia. Deve essere una sorta di organizzatore di terra che non salirà a guidare alcun autobus...per questa volta, per questo giorno.


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